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Virginia Raffaele, Antonio Albanese in Un mondo a parte - @Claudio Iannone
Poco più di un anno dopo Grazie ragazzi (e qualche mese dopo il doc Io, noi e Gaber) Riccardo Milani ritorna sugli schermi con il sodale Antonio Albanese, nuovamente impegnato in un ruolo da maestro: dal laboratorio teatrale per i detenuti si passa stavolta ad una piccola scuola elementare, nel borgo di Rupe (in realtà è Opi), nelle vicinanze di Pescasseroli, nel cuore del Parco Nazionale d’Abruzzo. “Qui non siamo nel mondo dei sogni, qui siamo in Un mondo a parte”, si sente dire non appena arrivato dalla vicepreside Agnese (Virginia Raffaele, per l’occasione con la calata dialettale di zona).
E per il lodigiano Michele Cortese, che aveva anelato quell’assegnazione temporanea dopo una quarantina d’anni d’insegnamento nella giungla della periferia romana, sarà meglio “acconciarsi” quanto prima per integrarsi in quel luogo. E smettere di guardarlo con gli occhi incantati del “turista”, dell’entusiasta, di colui il quale cita l’antropologo Vito Teti sul concetto di restanza (“Al diritto a migrare corrisponde il diritto a restare, edificando un altro senso dei luoghi e di se stessi. Il sentirsi ancorati e insieme spaesati in un luogo da proteggere e nel contempo da rigenerare radicalmente. Partire e restare sono i due poli della storia dell'umanità”), beccandosi improperi da chi, invece, continua a vivere in un posto dove “la rassegnazione si mangia a morsi con la scamorza”.
Con la consueta cifra che delinea le commedie agrodolci del regista romano, Un mondo a parte è un po’ Io speriamo che me la cavo (con premesse totalmente divergenti), un po’ Benvenuti al Sud – l’aspetto legato al linguaggio locale (menzione d’onore al collaboratore scolastico, “ma lo puoi chiamare bidello”, Nunzio, interpretato da Sergio Saltarelli, “viaggiatore di Pescasseroli”), agli usi e costumi (il colloquio con una mamma da fare in una stalla) – ma poco a poco, superato l’ambientamento del protagonista(“Quanto resta questo?” – “Sei mesi” – “E come cazzo se fa”…), si trasforma in una commedia “da battaglia”: l’istituto Cesidio Gentile detto Jurico (poeta pastore) - molto bella la storia vera di questo personaggio leggendario, che i bambini hanno imparato a fare propria – rischia infatti la chiusura. Quell’unica pluriclasse formata da studenti che vanno dai 7 ai 10 anni, a giugno potrebbe non esistere più per mancanza di nuove iscrizioni.
La corsa contro il tempo per evitarne la chiusura (e scongiurare così di fare “la fine di Sperone”, altro borgo che all’indomani della fine della scuola è morto giorno dopo giorno...) passerà attraverso la messa a punto di varie strategie, dal provare a farsi assegnare qualche profugo ucraino al tentativo di spostare da un paese vicino un’intera famiglia di nordafricani, e non solo…
D’altronde “il fine giustifica i mezzi” quando si tratta di resistere, quando si tratta di non darla vinta a chi, da qualche zona adiacente, spera nella chiusura della scuola per vedere arrivare nuove famiglie e fare affari con i centri commerciali di proprietà appena aperti: dichiaratamente ecologista – nel senso più ampio del termine, sia dal punto di vista della difesa dell’ambiente naturale (non mancano le belle vedute dei paesaggi innevati, poi verdeggianti con l’arrivo della bella stagione, popolati da lupi, cervi, orsi marsicani) sia dal punto di vista storico/culturale, il film funziona molto bene nella prima parte (quella più comica), ma mantiene un’indiscutibile vitalità lungo tutto il percorso successivo, forse con qualche linea narrativa di troppo (la sorella adolescente di un alunno ai ferri corti con la famiglia per il suo orientamento sessuale) e con l’ennesima riprova dell’innata abilità di Albanese di sapersi “acconciare” per qualsiasi latitudine – brillante, malinconica, ad altezza bambino – di ogni commedia che interpreta.