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Un giorno devi andare
La morte del padre e altri rovelli, Augusta (Jasmine Trinca, intensa) parte per l'Amazzonia, mettendosi al servizio di suor Franca, un'amica della madre. Missione tra gli indios, ma alla ragazza non basta: “piccola donna complicata” qual è, tra “i professionisti dello spirito” non trova il senso. Lascia la religiosa, raggiunge una favela a Manaus, su cui si stendono i tentacoli della speculazione edilizia. E parte ancora, sola, con la natura a scandire tempi e priorità, perché, come recita il nuovo film di Giorgio Diritti, Un giorno devi andare.
Visivamente ardito (fotografia di Roberto Cimatti), perfino elegiaco nella contemplazione acqua-cielo-terra del delta amazzonico, come un Sokurov in cinemascope, il film batte strade parzialmente già percorse dall'ultimo Malick, da The New World a To the Wonder, e intercetta gli stessi ostacoli: come dichiarare l'ineffabile, come legare audio e video alla ricerca dell'indicibile, anelare a una spiritualità non circoscrivibile né riproducibile senza cadere nel didascalismo?
Ecco, dunque, il dibattersi tra l'antropologia visuale e la contemplazione estatica (ed estetizzante), la saputa voce over e il quotidiano di poche parole, l'assolo esistenziale di Augusta e il timido, logoro tappeto sonoro di madre e nonna (Anne Alvaro e Sonia Gessner, entrambe non all'altezza) rimaste indietro, cercando la chiave dell'induzione: Augusta come noi, una Robinson Crusoe dell'anima per tutte le nostre isole. Perché è la possibilità di un'isola occasionalmente approcciata dalla gioia di un bambino, ma che isola rimane, quella che Un giorno devi andare ci consegna, segnando, non a caso, lo stesso fertile dissidio houllebecquiano tra mappa (i missionari) e territorio (gli indios).
Più ambizioso de Il vento fa il suo giro, meno riuscito de L'uomo che verrà, ma è la sfida che Diritti doveva tentare: sfrondare esotismo e proselitismo per provarsi in una teologia – e teleologia - di liberazione. Anche, soprattutto, dai cascami mondani del nostro cinemino.