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Parlare di, dunque mostrare, pedopornografia al cinema non è un valore assoluto, ma relativo: al solito, conta il come, a meno di non voler ridurre la settima arte ad agenda politica e ricettacolo di buoni propositi, alla voce autocrazia del contenuto con lo stile ai ceppi. Dunque, come: il film di Isabella Sandri Un confine incerto è ben fatto, ha la cura che si rivolge - diremmo si rivolgeva- alle cose importanti. È un film serio, compreso, perfino devoto al tema che s’è scelto. No, non è perfetto, anzi, si avverte una disparità di peso, che equivale a felicità artistica, tra il nocciolo e il resto, ovvero tra il crimine e la detection: il rapporto ambiguo, dunque, il confine incerto tra la vittima e il carnefice è ottimamente restituito, quel che sta attorno è meno nitido, meno radicale, più compromissorio, persino “facile”.
Prodotto da Beppe Gaudino, interpretato da Cosmina Stratan, Moisè Curia, Valeria Golino, Salvatore Cantalupo e, per la prima volta sullo schermo, Anna Malfatti, restituisce la consuetudine di Sandri per le storie di bambini e di adolescenti, “dai profughi palestinesi in Libano agli orfani delle bombe intelligenti in Afghanistan, dai figli dei lavoratori delle maquilas messicane, alle bambine sopravvissute alle stragi in Ruanda, o ai piccoli indios sterminati dall’arrivo dei bianchi nella Terra del Fuoco e in Patagonia”, e insieme alza la posta: la regista mette davanti alla sua macchina da presa l’aberrazione dell’”uccidere la tenerezza che l’essere umano ha dentro: il bambino”.
Lo fa inquadrando un camper parcheggiato nella Foresta Nera che accoglie una strana coppia: il ragazzo Richi (Curia, bravo) e la bambina “Sputo”. Che ci fanno lì, e perché loro, e come, come stanno combinati? A Roma, l’agente della Polizia Postale Milia Demez (la romena Stratan, Palma d’oro a Cannes per Oltre le colline di Cristian Mungiu) indaga su una rete di pedofili: analizzando l’ennesimo filmato, scopre l’identità di una bambina, Magdalena Senoner, scomparsa in Sud Tirolo. Milia farà luce grazie a una lingua che parla, il ladino.
La relazione tra Richi e la piccola è da titolo liminare, ambigua, morbosa senza ammorbare, sottratta e dunque ancora più infida, inquietante, obbrobriosa: la regista tace e acconsente, evoca e svia, allude e inquieta, mettendo la sordina alle sirene e la camera sul precipizio. Non capiamo tutto, ma abbastanza per preoccuparci, per allarmarci su quel dirimine morale, pardon, criminale: che fa Richi con i video cui sottopone “Sputo”, che cosa ne fa? Nel frattempo, le indagini: attualità professionale e trascorsi esistenziali si allacciano nella Mila della Stratan (intensa ma pesce fuor d’acqua più di quanto non volesse il copione), dalla sua i colleghi Golino e Cantalupo. Già, la domanda poetica, e anche drammaturgica, per tutti loro è antica, quis custodiet ipsos custodes?, e la risposta di Sandri non del tutto convincente.
Al contrario, il tallonamento europeo di Richi e “Sputo” è felice, ossia spaventoso: gli orchi con le magliettine da bambino a mo’ di passamontagna un’immagine destinata a rimanere, a sovvertire, a smuoverci. Mila e gli altri no, sono più ordinari, più “italiani”, cinematograficamente almeno. Dunque meno incerti, meno problematici, e sconfinanti. Tra occhi e coscienza.