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Léa Seydoux in Un bel mattino
Una delle voci più autorevoli della Nouvelle Vague francese, Éric Rohmer, ha sempre sostenuto quanto sia necessario rappresentare la vita in quanto tale, ma che per farlo bisogna “andare a cercarla dove nasce veramente, nei brividi del cuore, nel formarsi di un’idea”, e soprattutto occorre riuscire a raffigurarla tramite la limpidezza del linguaggio e la semplicità del quotidiano, con lo scopo principale di estrapolarne la chiarezza. Un Naturalismo post litteram insomma, di cui Mia Hansen-Løve continua a valersi anche nel suo ultimo film Un bel mattino, vincitore alla 23esima Quinzaine des Réalisateurs (2022). Raccontare una storia che altro non è che la vita stessa, vera e intricata, senza appariscenze, così come è: questo è l’intento.
La sinossi è semplice: la traduttrice Sandra Kinsler (Léa Seydoux), vedova da più di cinque anni, vive a Parigi con la figlia ancora piccola. Dedita al lavoro, Sandra conduce una vita regolata senza particolari avvenimenti. L’incontro fortuito con il vecchio amico Clèment (Melvil Poupaud), in piena crisi coniugale, le farà riscoprire le ormai sopite sensazioni di un nuovo amore. Ma la felice imprevedibilità del caso dovrà fare i conti con la malattia del padre (Pascal Greggory), non più autosufficiente. Nella ricerca disperata di una soluzione, Sandra si scontrerà con il deteriorarsi della salute del genitore, cercando sia di approfittare degli ultimi momenti di amorevolezza condivisa sia tentando di porre le basi per un nuovo inizio.
La drammaturgia di Un bel mattino è lineare e si muove parallela su due binari speculari, seppure totalmente distinti: la brutalità della malattia, il serpeggiare di quel senso nefasto di estinzione dell’individualità corporea e mentale, contrapposti al nascere di un sentimento inatteso, ardente ed essenziale, per ricominciare ad amare. Traendo ispirazione dall’esperienza autobiografica dell'infermità degenerativa del padre, Hansen-Løve si concentra sull’accettazione inevitabile, atroce e inesorabile del totale deperimento, spirituale e fisico, della figura genitoriale irriconoscibile nella nuova condizione di estrema debolezza. C’è anche il tema dell’ineluttabilità della vecchiaia che va a porre sul piatto la questione primordiale di ciò che resta di noi quando ce ne andiamo, quale memoria rimarrà e attraverso cosa lasceremo il ricordo della nostra esistenza.
Di pari passo, il consolidarsi della relazione amorosa, da fragile a serena, da tormentata a tremendamente spontanea, in un’evoluzione incontrastata di passione carnale ed emotiva. Sfuggirsi per poi bramarsi. Per una mascolinità che vertiginosamente si spegne, nel suo lento esaurirsi, se ne accende un’altra, nuova e rassicurante.
La duplicità narrativa è riscontrabile anche nell’alternarsi dello struggente (e mai patetico) deterioramento e del manifestarsi della sofferenza nell’avere contezza della fine del padre-uomo che ha sempre conosciuto, unitamente all’erotismo elegante e femminile personificato dall’androginia di Seydoux con il taglio corto “a la garçonne”, come Jean Seberg in Fino all’ultimo respiro, e i lineamenti talvolta rigati dalle lacrime, talvolta duramente provocatori.
Nell’essenzialità della storia, Un bel mattino è il “banale" e genuino fluire giornaliero, lo scorrere del tempo, la concretezza luminosa delle immagini e lo sprigionarsi dei sentimenti e dei corpi nel complesso gioco del sussistere. Molto forte la componente personale, Mia Hansen-Løve esplora i personaggi, li circoscrive, condividendone l’intimità e postulando quanto sia importante e straordinario immortalare la bellezza della condizione umana. Appassiona, colpisce e teneramente avvolge.