PHOTO
Ulidi piccola mia
A voler essere cattivi, Ulidi piccola mia è il Grande Fratello in casa-famiglia. Cattiveria al bando - non è davvero il caso - l'esordio al lungometraggio di Mateo Zoni, in concorso a Torino, prova il reality e trova palesi debolezze. Innanzitutto, costa poco, pochissimo, e si vede e si sente, perché il sonoro è davvero low-fi, e il sovrautilizzo delle musiche – compone Piernicola Di Muro, più aggiunte – non aiuta.
Sporadicamente da un piccolo budget nasce una grande estetica, a meno di non voler considerare il pauperismo un valore assoluto: lo spettro amatoriale qui è sensibile, eppure ci si potrebbe passare sopra, se il “contenuto” desse una mano. Non è così, Ulidi non è La bocca del lupo, non è La pivellina, non scrive e riscrive nella marginalità con la penna del cinema, non offre utili spazi di manovra all'interesse e all'empatia spettatoriale, bensì si limita a consegnare allo schermo l'incontro con una adolescente difficile, Paola, le sue compagne di comunità, dove sta da quattro anni, il padre anziano e contadino che ha riempito casa di libri e la madre marocchina, che da sempre la chiama Ulidi, ovvero “piccola mia”.
Seguiamo spezzoni di vita, esili tenerezze e corpi pingui, smorfie e sorrisi, alterchi e pensieri che a volte stringono la gola di Paola, quando è preda del “nervoso” auto-distruttivo, quello che (si) taglia. La storia è questa, la mediazione artistica è ridotta ai minimi termini, ma è proprio la storia a lasciare ulteriori dubbi: Paola confessa anche un traumatico abuso infantile, si rivela e svela (al netto di camera e microfono), ma siamo sicuri – per dirla con la poesia di Mariangela Gualtieri in testa al film – che tutto questo “salvi la delicatezza sua” dal pericolo exploitation?