E' da sette anni che un film indiano non partecipa a una sezione competitiva del festival di Cannes. Il ritorno è affidato a Udaan, per la regia di Vikramaditya Motwane, già sceneggiatore di un importante titolo del recentissimo botteghino indiano, Dev D. (2009), e sound designer di uno dei piu' grandi successi di Bollywood anni 2000, Devdas (2002). Udaan, per essere chiari fin da subito, è un film dalla scrittura estremamente convenzionale e con lo srotolamento di una serie di caratteristiche peculiari che hanno permesso il costruirsi di una “poetica industriale” del cinema indiano contemporaneo. Intanto la sinossi. Dopo otto anni il giovane Rohan viene espulso dal collegio di Bombay ed è costretto a ritornare nella piccola città industriale di Jameshdpur alla corte del padre vedovo, autoritario e despota, proprietario di una fabbrichetta siderurgica. Finiscono così i tempi delle marachelle con gli amici collegiali e inizia una dura disciplina paterna fatta di pesante jogging mattutino, ore e ore di lavoro operaio in fabbrica e soprattutto l'obbligo di frequentare la facoltà di ingegneria. Anche se Rohan vorrebbe fare arte e letteratura per diventare scrittore. Il conflitto padre e figlio sfocia prima nell'incomprensione, poi nell'odio, infine in una defilata e ribelle indifferenza. Udaan è, appunto, un classico dettato melodrammatico dove si mette in scena l'opposizione generazionale, il bradisismico scontro tra tradizione e modernità, tra valori patriarcali antichi e nuove istanze giovanili. I caratteri sono esasperati al massimo (il padre è di una cattiveria disgustosa) e la messa in scena aiuta una partigianeria emotiva gonfiando, con un altro elemento industriale caratteristico del cinema indiano, l'enfatica parzialità. Parliamo dell'intera colonna sonora, costruzione rock-pop ad hoc, melodicamente anche piuttosto occidentale, di brani musicali e dei loro testi per accentuare la necessità di liberazione del ragazzo dal giogo paterno. A ciò va aggiunta una scelta cromatica naturalistica, virata su atmosfere notturne, quindi una scala di neri, arancioni-rossi, gialli luce da lampione, per rendere l'oppressione espressivamente tangibile. Motwane, insomma, richiama la tradizione del cinema bollywood anni 2000 con cui si è formato, senza aggiungere nulla di stilisticamente proprio, se non questa appassionata e travolgente urgenza di liberare l'oppresso dall'oppressore che in certi giorni dell'anno sembra essere nucleo tematico vecchio come il cucco.