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Daisy Edgar-Jones, Anthony Ramos e Glen Powell in Twisters
Al netto delle risonanze sociologiche e culturali, se il disaster film ha segnato gli anni Novanta fu soprattutto per la possibilità di sperimentare effetti speciali mai visti prima, mettere in scena, insomma, le paure delle persone comuni e, di rimbalzo, ribadire il mito dell’eroismo sia sul piano dell’avventura che su quello dell’ingegno. Tant’è che di Twister ricordiamo in primis la straordinarietà tecnologica, con gli uragani da rincorrere e la mucca che vola. Nel riesumare e rinnovare, ventotto anni dopo, un titolo che non ha generato un franchise ma è rimasto nell’immaginario, produttori e autori hanno capito che il valore aggiunto non poteva risiedere (solo) su una CGI che nella sua perfezione non ha più niente di sbalorditivo. Il cuore sta nelle relazioni umane, nella rivendicazione di un senso di comunità, nella necessità di sperare che il futuro possa essere migliore grazie alla scienza e allo studio ma anche al coraggio e alla fiducia.
Da qui nasce Twisters, inizialmente lanciato con la regia di Joseph Kosinski (è rimasto come creatore della storia: si era offerta anche Helen Hunt, star del prototipo, che avrebbe voluto sviluppare un sequel ed è stata rispedita al mittente) e poi finito nelle mani di Lee Isaac Chung, l’autore di Minari. Scelta assolutamente comprensibile, specie se consideriamo che dietro questo “revival” (o meglio: uno “stand-alone”, cioè un prodotto a sé stante, un po’ sequel e un po’ reboot e né l’uno né l’altro) c’è sempre Steven Spielberg, nume tutelare di questi blockbuster che tengono insieme il fattore umano e lo spettacolo tecnologico ma anche affine al film che ha consacrato il regista di origini asiatiche: la centralità della famiglia, l’empatia come vocazione, lo sguardo ad altezza di bambino, il diritto a coltivare il sogno americano, il conflitto tra uomo e natura.
Sono temi che non sovraccaricano Twisters ma, anzi, lo esaltano: danno tridimensionalità ai personaggi, restituiscono il loro passato per dare consistenza al futuro, entrano nel tessuto sociale del paesaggio, permettono di ricordarci sempre che un uragano non è solo un giocattolone per il pubblico ma è sinonimo di distruzione. Riflessione, quest’ultima, che edifica tutti i presupposti del film: da una parte c’è la meteorologa Kate, ex cacciatrice di uragani segnata dall’incontro devastante con un tornado durante i suoi anni al college, ricontattata dall’amico Javi per sperimentare un innovativo sistema di tracciamento; dall’altra c’è Tyler, un cowboy dell’Arkansas che impazza sui social per rincorrere e filmare in diretta le tempeste, accompagnato dalla musica country. Da una parte, lo studio e il dolore; dall’altra, l’avventura e l’eccitazione.
A suo modo è già una dichiarazione d’intenti: nella società del protagonismo che diffida di chi ha studiato perché “colluso” col sistema, l’uragano è la chimera raggiungibile, svuotato del suo significato sterminatore e ridotto a effetto speciale della realtà. Ma è una distinzione solo apparente perché la faccenda è meno schematica di quanto sembri, e innesca una serie di conseguenze che ragionano sul cambiamento climatico senza mai nominarlo evitando così la trappola didascalica e risultando comunque assolutamente efficace. Twisters restituisce realismo alla catastrofe, non elude la morte e fa vedere il disastro, denuncia la speculazione (l’ipocrisia degli studiosi che si vendono alle logiche del capitale) e invita alla ricostruzione (la rete solidale dei dropout che seguono Tyler).
In più c’è lo schema dell’“enemies to lovers” che non è mai invadente ma perfino malinconico, con la chimica tra Daisy Edgar-Jones (la cicatrice sulla gamba è il simbolo di un’anima ferita) e Glen Powell (sempre clamoroso in questi personaggi che si rivelano più profondi di quanto appaiono) più che palpabile (e piuttosto casta). E se le allusioni e le citazioni al primo Twister non si riducono al fanservice, c’è almeno una sequenza memorabile, quando la popolazione si rifugia al cinema, lo schermo viene risucchiato e l’uragano diventa uno spettacolo a metà tra la cronaca in diretta e il treno dei Lumière. Ah, il cinema americano.