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Antonio Albanese in Tutto tutto niente niente
"Personaggi ridicoli". Antonio Albanese lo ha ribadito più volte, presentando Tutto tutto niente niente: "Proviamo a ridere dell'Italia attraverso tre caratterizzazioni desolanti, una fauna che detesto profondamente". E allora, dopo aver regalato a Cetto La Qualunque il brivido dell'one man show cinematografico (Qualunquemente), Albanese e il regista Giulio Manfredonia tentano di bissare il precedente successo di botteghino triplicando le "maschere": al politico corrotto e sessuomane si aggiungono il sempre più "fumato" Frengo (vecchia conoscenza tra i personaggi creati da Albanese) e il leghista scafista nonché - ovviamente - secessionista Rodolfo Favaretto (new entry nel catalogo del comico di Lecco). Tutti e tre - primi non eletti delle rispettive liste - finiscono in galera per differenti motivi, tutti e tre vengono fatti uscire da un sottosegretario lisergico e manovratore (Fabrizio Bentivoglio) per colmare il disavanzo di tre voti utili in un parlamento governato da perdizione, nani e ballerine. Ma gestire queste tre "cellule impazzite" sarà molto più arduo di quanto credesse.
Forse lo rivaluteremo tra qualche decennio, Tutto tutto niente niente, quando la realtà delle cose (si spera) sarà differente dal momento storico-politico che stiamo vivendo: oggi come oggi, però, il film di Manfredonia rimane sospeso in un limbo che sembra impedirgli di andare al di là del grottesco a cui ormai da tempo la cronaca stessa ci ha abituati e, cosa ancor più drammatica, riesce a strappare solamente qualche sorriso rispetto alle risate che, invece, prometteva.
Albanese è bravo, lo sappiamo, ma probabilmente le sue maschere non riescono a rendere sulla lunga distanza del racconto filmico: che in questo caso, maggiormente rispetto al precedente, tenta di affiancare ai tre protagonisti ulteriori spalle per garantire dinamismo e tempi comici (su tutti, oltre al già citato - e indubbiamente riuscito - sottosegretario interpretato da Bentivoglio, la convincente Lunetta Savino nei panni della mamma invasata di Frengo, decisa a far beatificare il figlio da vivo...): comicità che però non va oltre le gag più o meno indovinate, schiacciata dalle sue stesse ambizioni (anche scenografiche, basti pensare al trucco e ai costumi o alla scelta di ambientare la "politica romana" in edifici che non a caso ricordano i marmi del ventennio fascista dell'Eur), scissa tra il pensare alto (le caricature di Grosz o il cabaret di Valentin durante la Repubblica di Weimar, come ricordato da Bentivoglio) e lo sfogo becero e populista affidato ai tre "mostri" di Albanese. "Sono una escort", sussurra languidamente una bellissima ragazza a Cetto La Qualunque, che ringrazia ma di primo acchito rifiuta l'offerta: "Vedi, io adesso ho proprio bisogno di un troione"... Tutto tutto niente niente: l'Italia è questa, ci provano a dire Manfredonia e Albanese: tra 50 anni, magari, riscopriremo "come eravamo", oggi siamo troppo vicini sia per coglierne l'eventuale denuncia sia per comprendere l'aspetto ridanciano della questione. Quello che resta è la sensazione di trovarsi di fronte ad un insieme di schizzi, pennellate estemporanee di un'epoca che forse, al cinema, le maschere di un certo tipo non sono più in grado di inquadrare.