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Tutti contro tutti
Auguriamo a Tutti contro tutti un successo maggiore di quello del Principe abusivo di Siani. Non ce ne voglia il comico napoletano, ma la riuscita del film d'esordio di Rolando Ravello proverebbe che un'altra commedia è possibile oltre le patacche trasformate in oro da alchimisti dell'avanspettacolo.Ai copioni colabrodo e al cinema-zelig, Ravello e Massimiliano Bruno (sceneggiatore, regista e ideologo della seconda repubblica della commedia italiana) oppongono se non altro ambienti scartavetrati e ritagli di cronaca, consentendo ai coloristi di spargere sale nella zucca dei loro pezzi.
L'ambientazione è la periferia di Roma (Tufello), tra nuovi poveri e squatters di Italia nostra. Occupanti di case che non appartengono a nessuno, finite nelle mani dei giullari del malaffare (nomen omen: Mazzetti), a cui si deve rispetto e affitto. Ci vivono famiglie con stipendi da fame, nonni a carico e spazi vitali da penitenziario domestico. Situazione pessima, ma preferibile a quella che si verificherebbe nel caso in cui lo stesso appartamento venisse preso da altri, lesti a intrufolarsi alla prima occasione.Così va ad Agostino (Ravello), Anna (Kasia Smutniak), nonno Rocco (Stefano Altieri) e i figli Erica (Agnese Ghinassi) e Lorenzo (Raffaele Iorio) e chissà a quanti altri. Ravello giura di aver scritto monologo prima e sceneggiatura poi (con Bruno) traendo spunto da una vicenda reale. E gli crediamo. Nel paese che galleggia su un mare d'illegalità e di debiti capita anche questo.
Riconosciamo a Tutti contro tutti di non essere la solita "mano" di bianco sulle pareti ammuffite di casa nostra. Ma qui ci fermiamo.La grande riforma della commedia italiana ci sembra ancora incompleta, di facciata, appiccicata alla cronaca, incapace di penetrare realmente un corpo sociale mutato, sperso, in perenne ebollizione. Non basta cambiare volto - Giallini e Smutniak a parte, il cast non specula certo sui nomi - ma bisognerebbe voltare pagina, a iniziare dal copione, pietrificato attorno a un solo spunto e a mille immutabili cliché.
E' un problema di linguaggio che fa del linguaggio il problema: si ride solo grazie al truce romanesco alla Bombolo (in cui Stefano Altieri peraltro riesce benissimo), si scivola su discutibili stereotipi (occupanti, burini e mafiosi vengono dal sud; le donne di servizio dall'est; gli immigrati da ogni dove purché siano sempre bonaccioni), si piegano trame e coltelli alle lusinghe di un sentimentalismo dolciastro e mistificante. Si può discutere di escort e politica (Nessuno mi può giudicare), meritocrazia e raccomandazioni (C'è chi dice no), integrazione e case occupate (Tutti contro tutti), ma alla fine questi film si somigliano tutti, alternano gag e m(i)elodramma, risultano sempre un po' tiepidi, raffazzonati, consolatori, affidati al buon cuore.
Non distraggono l'occhio aduso alla fiction perché non distinguono tra audience da salotto e pubblico in sala. E il risultato, purtroppo, si vede.