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Tsili
Non c'è luce che possa illuminare l'abisso. La memoria può provare a contenerlo, imbrigliandolo nelle cinghie del tempo (del senso che conferisce a ogni storia). Ma è l'arte a renderlo meno oscuro, trasfigurandolo.
Quell'abisso è il fondo nero, nerissimo, con cui si apre - e si chiude - Tsili di Amos Gitai. Da lì si staglia, quasi si stacca, una giovane donna che trema, si contorce, si sbraccia. Fuoricampo un violino dirige la sua performance da Tanztheater, offrendole scariche elletrostatiche di bellezza e rabbia.
Nei titoli di testa c'è già il film e il progetto del regista israeliano, che torna a interrogarsi sei anni dopo Più tardi capirai sulla memoria collettiva e l'arte in rapporto alla Shoah. Lo fa adattando il romanzo di Aharon Appelfeld, Paesaggio con bambina, apportandovi lievi ma significative modifiche.
Protagonista una giovane ebrea con ritardo mentale, che si nasconde in un bosco per sfuggire alla cattura dei nazisti. Lì vive mangiando erbe selvatiche e foglie secche, finché la sua solitudine sarà interrotta dall'incontro con un altro fuggitivo, Marek. A differenza del libro però, qui le donne del bosco diventano due - una delle quali è la "danzattrice" dell'incipit - perché Gitai vuole dare corpo all'immaginazione della protagonista, che sogna di essere più giovane e bella e di vivere una sorta di liason con l'uomo.
La metafora è chiara - la donna è l'arte, la sua incapacità di connettersi con la realtà rappresenta la vocazione trasfigurante, il rimedio della creazione all'insostenibilità del Male. L'altra fortissima allegoria del film riguarda l'uso della musica. Il leitmotiv è il pezzo del violinista Alexej Kotchetkov che verrà eseguito solo quando la guerra cesserà il suo rumore e i sopravvissuti saranno pronti a tornare in Israele.
Dopo l'unico piano sequenza di Ana Arabia, Gitai opta stavolta per una regia di stampo teatrale - camera fissa, plongée e lunghe riprese frontali - per mantenere una distanza e lasciare che siano i personaggi e le loro performance a venire verso di noi.
Nonostante il naturalismo della messa in scena siamo vicini al lavoro d'avanguardia nei teatri di posa: operazione suggestiva e di indiscutibile valore morale, ma faticosa da seguire e probabilmente non accessibile a tutti.