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Troppo azzurro
I più pigri se la sbrigheranno accreditandolo alla sempre nutrita covata di Nanni Moretti, il più influente degli autori italiani: ritratto di un giovane in fiamme, Roma come epicentro del mondo, l’estate del nostro scontento, la commedia quale ineluttabile bacino, la malinconia come anticamera della disperazione. Qualcuno – non a torto – potrebbe immaginarlo come un novello Massimo Troisi, per la sfrontata timidezza e la gentile modestia, l’umorismo rocambolesco per convivere con il dolore lancinante di un amore perduto. E c’è chi, leggendo i titoli di testa, non potrà non vedere l’ascendente di Gianni De Gregorio (qui supervisore artistico), con quel sorriso buffo di chi dice sì a una vita comunque piena di amarezze.
Eppure, più del cinema di ieri, è l’attualità a dirci qualcosa di questo Troppo azzurro, con la curiosa convergenza tra la sua prima alla Festa del Cinema di Roma (sezione Freestyle) e l’uscita del nuovo album di Calcutta, Relax. Questo perché c’è più di un’affinità tra l’opera prima di Filippo Barbagallo (classe 1993) e le ultime canzoni del cantautore più importante della sua generazione (1989), a partire dalla struggente Tutti che con quel definirci “falliti, esauriti, impauriti, bolliti” ci dice tanto di una stagione e di un’epoca. Per contrappunto musicale, tuttavia, Barbagallo sceglie i Pop X, e fa benissimo perché pochi come loro sanno mettere insieme il nostalgico e il demenziale, il descrittivo e il rapsodico, con un momento in auto che sembra giocare proprio con l’allusione facile alle fisime di Moretti.
E Barbagallo dialoga consapevolmente con la tradizione malincomica degli autori-attori, facendosi inevitabile protagonista di una commedia più di transizione che di formazione. Dove Dario, un venticinquenne, ben comodo nella sua adolescenza (vive con i suoi, esce con gli stessi amici di sempre, non si affanna con gli studi), resta nel torrido agosto romano, cioè quando tutto è possibile (Un sacco bello, giusto? D’accordo ma forse anche Senza verso. Un’estate a Roma di Emanuele Trevi e L’ultima estate in città di Gianfranco Calligarich, e pure le canzoni di Fulminacci e Franco 126: c’è un’epica su quel mese capitolino che meriterebbe un trattato), e prima frequenta la riminese Caterina e poi pensa sia amore (e invece è un calesse?) con Lara, la ragazza irraggiungibile sempre amata.
Troppo azzurro, citando ed esasperando il classico di Adriano Celentano (il testo di Vito Pallavicini e Paolo Conte è quasi un palinsesto), si scontorna dal quotidiano (i lavandini accroccati, la Settimana Enigmistica, il formato che si restringe fino a diventare lo schermo di uno smartphone) e si incastona nell’immaginario (i treni all’alba, le luci che tagliano le stanze, i salti nel vuoto, le illustrazioni astratte di Antonio Pronostico), abbraccia il rocambolesco (le conseguenze della spericolata cottura di un branzino scongelato) e sottolinea l’impaccio (“Per essere una ragazza sei simpatica”), rivendica l’inconsapevole ironia (“Va’ a salutare nonna!” si raccomanda il papà Valerio Mastandrea prima di partire per le vacanze: solo che è al cimitero) e rivela il romanzesco nascosto (“Non sei felice” sentenzia sempre il papà, con L’occhio di Vladimir Nabokov a dare il quarto di nobiltà).
Barbagallo è figlio di tutti e di nessuno (e di Angelo, il produttore, che non produce: in un Paese familista, una medaglia), non è la voce ma una voce. Della generazione delle occasioni mancate, delle timidezze patologiche, della nostalgia del futuro. C’è tutto questo in Troppo azzurro, uno degli esordi più belli degli ultimi anni.