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Trifole – Le radici dimenticate
Sullo sfondo delle Langhe mitizzate da Cesare Pavese una vicenda familiare ambientata nel mondo del pregiato tartufo piemontese. Una fiaba per riconnetterci con la natura e con i legami più radicati dell’esistenza Nei centodue versi de I mari del Sud, componimento d'apertura della raccolta poetica Lavorare Stanca, Cesare Pavese annota con malinconico riecheggiamento: “le Langhe non si perdono”, ponendo le basi per una struggente riflessione sul senso di totale sradicamento dalle origini. Confinato a Brancaleone Calabro per essere dichiaratamente antifascista, lo scrittore rievoca il valore magnetico del luogo d'origine nobilitandone l'aspetto morfologico ed evidenziando la connessione tra quelle morbide colline dalle quali intravedeva il mare e il proprio essere.
Tale celebrazione della natura, delle radici e delle correlazioni che la terra instaura con i ricordi è uno degli aspetti preponderanti della produzione pavese e quello che ha (probabilmente) influenzato la seconda opera di Gabriele Fabbro, Trifole. Le radici dimenticate. Realizzato nelle stesse terre “segnate da immani fatiche di generazioni” è interamente girato in Piemonte con il contributo di Film Commission Torino Piemonte e Piemonte Film Tv, nelle sale distribuito da Officine Ubu.
Alla giovane londinese Dalia (Ydalie Turk) viene chiesto dalla madre (Margherita Buy) di recarsi in un piccolo paese della Langhe per badare al nonno Igor (Umberto Orsini), anziano cacciatore di tartufi che da anni vive isolato nelle campagne insieme al cane Birba. Per la maggior parte dei giorni sconnesso dalla realtà, l'uomo è in preda alla demenza senile e a rischio di sfratto. L'unica soluzione per riuscire a mantenere l'amatissima casa è trovare una trifola di grandi dimensioni da poter vendere alle abituali aste che si svolgono periodicamente ad Alba.
Il compito è arduo: la concorrenza è disumana e il tempo scorre. Il bisogno impellente spingerà l'inizialmente restio uomo a tramandare i segreti della caccia alla nipote per farsi aiutare. La ragazza giunta in Italia senza nessuna cognizione di sé, sperduta e con zero prospettive, riuscirà a ritrovarsi grazie al neonato rapporto parentale e alla temeraria avventura. La trifola, termine ereditato dal piemontese ottocentesco, è merce pregiata e fin da subito incarna la risoluzione al problema e contemporaneamente oggetto del desiderio.
Permeato dal fascino mitologico dell'essere considerato frutto dei fulmini scagliati da Giove durante le piogge, la ricerca conserva i dettami delle ancestrali credenze popolari tramandate dalla conoscenza profonda del territorio vissuto come spiritualmente congiunto. Luoghi oramai trasformati dall'insaziabile e spietata urbanizzazione che ha espropriato il paesaggio dall'integrità e dal naturale funzionamento biologico spezzando in modo quasi irrevocabile l'equilibrio uomo-natura con la conseguente penuria di risorse. La scarsità della materia prima, oltre a causare complicanze nella venazione, acuisce la contesa tra i cercatori aizzandoli gli uni contro gli altri in un business senza scrupoli le cui esasperate dinamiche mirano unicamente al profitto. È il potere economico a muovere i fili, nient'altro.
Anche i protagonisti verranno colpiti da questa mercenaria ossessione anteponendo l'opportunità finanziaria, seppure per giusta causa, fino ad esserne fissati. Solo assottigliando il distacco emotivo riusciranno a instaurare una connessione nutrita e dopo aver smussato le singole fragilità accetteranno il fallimento come possibilità di ripartenza e non di fine. Fabbro inscena un ammonimento a riscoprire le usanze nostrane trascurate e soprattutto a curare e ravvivare l'amore familiare celebrato come elemento imprescindibile per l'esistenza.
Pur rimanendo convenzionale nell'intreccio, il punto di vista sul mondo inesplorato dei tartufi è inedito. Meno consuete alcune scelte registiche e l'impiego continuato di totali paesaggistici che rendono l'atmosfera rarefatta, quasi fiabesca. Il film appare per lo più autentico e benaugurante affinché tutti e tutte sappiano che "un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.