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Triangle of Sadness Fredrik-Wenzel_©Plattform-Produktion
“Da ciascuno secondo le proprie capacità a ciascuno secondo i propri bisogni”. Muove da un’istanza marxiana il quinto lungometraggio di finzione dello svedese classe 1974 Ruben Östlund, salito alla ribalta internazionale con Forza maggiore (Turist) nel 2014 e poi consacrato dalla Palma d’Oro a The Square nel 2017.
A Cannes 75 compete con Triangle of Sadness, che sceglie quale Virgilio una coppia di modelli Carl (Harris Dickinson) e Yaya (Charlbi Dean), che intenti a riflettere sulla propria relazione, soprattutto in merito al denaro, vengono invitati – lei è influencer – a una crociera di lusso, appannaggio di oligarchi russi che “vendo merda”, ovvero fertilizzanti, inglesi trafficanti d’armi e altri superricchi più o meno afasici, con l’antitesi affidata al capitano alcolizzato e marxista, incarnato da Woody Harrelson.
L’atmosfera a bordo è instagrammabile, dallo champagne a una teoria di vezzi più parvenu che borghesi, ma la tempesta è dietro l’angolo: lo yacht va su e giù durante la cena, di sette portate, del capitano, ma potrebbe andare peggio, e andrà con profluvio di vomito e gli spari sopra.
La capacità di Ruben Östlund di scartavetrare apparenze, luoghicomuni e ipocrisie del (soprav)vivere contemporaneo non si discute: l’aveva fatto in formato famiglia con il suo film migliore, Turist, l’ha fatto meno bene con The Square nei confronti dell’arte contemporanea, qui alza l’asticella o, almeno, l’ambizione, imbarcando su uno yacht da 250 milioni ruoli sociali, barriere di classe e nuovi ricchi.
Arriverà la proverbiale isola, anche Venerdì – vedrete chi… - e c’è fino al disastro molto di lodevole: a parte che la modella e attrice sudafricana Charlbi Dean nobiliterebbe pure una cinepanettone, Triangle of Sadness – che arriverà nelle nostre sale con Teodora – si incarica meritoriamente di satira, nonsense, ironia e analisi sociale sugli happy few, agendo su due direttrici: la stigmatizzazione delle loro dorate miserie umane e la stigmatizzazione delle loro altrettanto dorate crociate ambientali, civili, sotto il segno dell’inclusione, del climate change e altre parole al vento.
Nega, a questi (na)babbi, persino l’istinto di sopravvivenza o, almeno, la capacità di sopravvivenza: non sanno pescare, accendere un fuoco, cucinare. Parassiti e avvoltoi, capaci di levare il Rolex al congiunto estinto, che lo humour mette a giusta distanza, ma fino a un certo punto, poi Östlund non tiene più, né il punto ideologico che sdilinquisce, né i giri della sceneggiatura, ché le battute perdono brio, la sceneggiatura si sfilaccia, l’iterazione ammorba la drammaturgia – e le due ore e mezza si potevano tagliare di quarantacinque minuti agevolmente.
Ed ecco, nel percepire le debolezze, che si mastica, se non amaro, il bolo: ma dov’è che l’avevamo già visto, Triangle of Sadness? No, non le rasoiate antiborghesi di Buñuel, né la carnalità e i fluidi corporei di Ferreri, ma un più esteso, ficcante déjà vu, dove? Tocca guardare al mare, e farsi, ehm, travolgere dai ricordi: Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto di Lina Wertmüller, 1974. Giancarlo Giannini, Mariangela Melato, un altro yacht, ben altra battuta: “Brutta bottana industriale socialdemocratica!”. Se la sogna Östlund.