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Trenque Lauquen
Sarebbe fin troppo facile (ri)trovare Michelangelo Antonioni dietro, dentro, attraverso, oltre Trenque Lauquen, il magnifico film dell’argentina Laura Citarella presentato alla Mostra di Venezia nel 2022 e lì purtroppo ignorato dalla giuria di Orizzonti. Facile perché si muove – apparentemente – su linee simili a quelle de L’avventura e, in generale, di tutta la trilogia dell’incomunicabilità: in una piccola città (siamo nella pampa argentina), una donna, Laura, scompare e due uomini che la amano indagano e si mettono in viaggio per cercarla.
La sparizione – o la fuga? – è una scatola cinese, un mistero che ne contiene un altro e un altro ancora: un segreto contenuto tra le pagine dei libri di una biblioteca, il carteggio amoroso di un’altra donna scomparsa tempo prima, la “laguna rotonda” (che dà il nome alla zona) che nel suo movimento circolare occulta verità ingombranti, fiori inspiegabilmente troppo gialli, un evento soprannaturale che sconvolge la comunità.
Un labirinto in cui a tenere il filo – allungandolo e un attimo dopo tirandolo indietro per illudere che l’uscita sia vicina – è proprio Laura, imprendibile nel suo essere evanescente e carnale, figura dell’amore e sua patologia, che sfugge allo sguardo maschile e al suo desiderio di comprensione.
Alla quarta regia in un decennio, Citarella continua il discorso de La Flor di Mariano Llinás, il fluviale (quasi 14 ore) capolavoro da lei prodotto insieme al regista: anche Trenque Lauquen è un testo espanso nei temi e articolato negli spazi, formalmente audace e sfidante nei confronti del pubblico, sperimentale nel pensiero ma perfino classico nei fatti. Denso fino alla vertigine, magmatico per vocazione più che per bulimia, colloca il privato nel collettivo, scopre l’onirico nel quotidiano, incontra il fantasmatico tra le pareti domestiche, esplora il paesaggio per entrare nelle viscere dei suoi abitanti.
Come la sua protagonista (interpretata da Laura Paredes, anche sceneggiatrice), Citarella sfugge agli incasellamenti, sconfina prima in un genere e poi nell’altro quasi a voler sottolineare la contiguità (anzi, la corrispondenza) tra finzione e costruzione, autrice e personaggio, lasciando che l’una si faccia “demiurga” dell’altra in un continuo rincorrersi alla ricerca di un’impossibile completezza. E così il crime diventa grimaldello per il women’s film, il giallo si mischia al metafisico, il mélo spunta tra le pieghe dell’avventura, tracce di musical (la splendida canzone Los caminos è più di un leitmotiv) infrangono il tessuto narrativo.
Minimalista e al contempo eruttivo, è cinema politico in purezza – perché lo sguardo è sempre una questione politica: mette in campo l’ipotesi di un mondo alternativo a quello forgiato, plasmato, improntato, misurato dallo sguardo maschile – dove la teoria è pratica del racconto, un dedalo dove la deviazione e il decentramento sono strumenti (narrativi) per sbrogliare il groviglio: la variazione d’autore (e intellettuale) di un escape room, cripto-film con la profondità di un crito-film (la riflessione su generi, forme, formati), un’opera mutante che sa mantenere un suo inquieto fascino in progress.