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Tre Piani di Nanni Moretti - cr. Sacher Film/ Fandango
Un condominio signorile, una serie di eventi che modificherà per sempre l’esistenza di tre famiglie, più una.
Nanni Moretti torna in concorso a Cannes sei anni dopo Mia madre e lo fa con Tre piani, film tratto dal romanzo omonimo di Eshkol Nevo (Neri Pozza Editore).
Nanni Moretti sul set di Tre piani - cr. Fandango/Sacher Film
Per la prima volta in assoluto, il regista romano arriva sulla Croisette con un’opera ancora inedita in Italia (uscirà il 23 settembre, con 01 distribution) ma, soprattutto, mette in scena un film – su sceneggiatura firmata insieme a Valia Santella e Federica Pontremoli – che non prende le mosse da un suo soggetto originale.
E anche per questo, forse, Tre piani sembra una sorta di corpo alieno rispetto alla sua filmografia, eterogenea quanto si vuole, ma sempre caratterizzata da elementi riconducibili ad un tocco, un’intuizione, un dettaglio che in questo caso sembrano inseriti più a tavolino (“No, non andiamo in quel bar, ha un arredamento che non mi piace”, o la sequenza nel prefinale della carovana danzante che, in qualche modo, apre al mondo i personaggi principali del film).
La vicenda, anzi le vicende che seguono un percorso narrativo lungo dieci anni (colto in tre differenti momenti, ogni cinque anni) vedono alternarsi senza soluzione di continuità gli abitanti di tre piani di questa palazzina romana.
Elena Lietti e Riccardo Scamarcio in Tre piani - cr. Sacher Film /Fandango
Al primo piano vivono Lucio (Riccardo Scamarcio), Sara (Elena Lietti) e la loro bambina di sette anni, Francesca. Nell’appartamento accanto ci sono i più anziani Giovanna (Anna Bonaiuto) e Renato (Paolo Graziosi), che spesso fanno da babysitter alla bambina. Una sera, Renato, a cui è stata affidata Francesca, scompare con la bambina per molte ore. Quando finalmente i due vengono ritrovati, Lucio teme che a sua figlia sia accaduto qualcosa di terribile. La sua paura si trasforma in una vera e propria ossessione.
Al secondo piano vive Monica (Alba Rohrwacher), alle prese con la prima esperienza di maternità. Suo marito Giorgio (Adriano Giannini) è un ingegnere e trascorre lunghi periodi all’estero per lavoro. Monica combatte una silenziosa battaglia contro la solitudine e la paura di diventare un giorno come sua madre, ricoverata in clinica per disturbi mentali. Giorgio capisce che non potrà più allontanarsi da sua moglie e sua figlia. Forse però è troppo tardi.
Dora (Margherita Buy) è una giudice, come suo marito Vittorio (Nanni Moretti). Abitano all’ultimo piano insieme al figlio di vent’anni, Andrea (Alessandro Sperduti). Una notte il ragazzo, ubriaco, investe e uccide una donna. Sconvolto, chiede ai genitori di fargli evitare il carcere. Vittorio pensa che suo figlio debba essere giudicato e condannato per quello che ha fatto. La tensione tra padre e figlio esplode, fino a creare una frattura definitiva tra i due. Vittorio costringe Dora a una scelta dolorosa: o lui o il figlio.
Genitorialità e senso di colpa, immutabilità dei caratteri quando invece tutto intorno muta, responsabilità e conseguenze derivanti dalle nostre azioni: Nanni Moretti adatta il libro di Nevo (tre racconti separati e ambientati a Tel Aviv) senza allontanarsi dal senso profondo dello stesso, giocoforza restituendo sullo schermo una fluidità narrativa attraverso un unico racconto con diverse storie al suo interno.
Alba Rohrwacher in Tre piani - cr. Fandango/Sacher Film
“Ogni gesto che noi compiamo anche nell’intimità delle nostre case ha conseguenze che si ripercuoteranno sulle generazioni future”: al regista di Bianca e Habemus Papam, La messa è finita, Sogni d’oro e Il caimano sta a cuore questa più di altre questioni.
E sembra volerlo rimarcare anche attraverso escamotage accessori, vedi ad esempio il fatto che i personaggi adulti non crescono mai nell’arco di questi 10 anni, non invecchiano fisicamente, mentre le bambine sì (interpretate da diverse attrici nelle varie fasi del racconto), eccezion fatta per il personaggio del ragazzo, Andrea (sempre Sperduti), unico però ad affrontare un reale, consapevole processo di crescita.
Che lo vede affrancarsi da una famiglia impostata su una “strada” che doveva essere l’unica percorribile e che, per questo, fallisce miseramente nel delicato compito della costruzione di un rapporto con lui.
Perché "le nostre azioni sono quello che noi lasciamo in eredità a chi viene dopo di noi", ricorda Moretti nelle note di regia: possono essere tracce di un disturbo psichico involontario (nel caso del personaggio di Monica), ma lo sono altrettanto le fobie e le rigidità che, magari inconsapevolmente, finiamo per trasmettere giorno dopo giorno ai nostri figli. Che finiranno per aver paura di ogni cosa o, come nel caso di Andrea, a ribellarsi in maniera incosciente e violenta.
Concettualmente parlando, dunque, il film di Moretti (accompagnato ancora una volta dalle melodie composte da Franco Piersanti) rispetta la linea di un percorso già impostato. Ma lo fa appunto seguendo un’unica “strada” (con i personaggi femminili più inclini al cambiamento, mentre gli uomini rimangono ancorati alle loro insindacabili e deleterie certezze), senza lasciarsi sballottare da chissà quale guizzo, o intuizione, ottenendo anche meno del dovuto dal suo nutrito e variegato cast, al quale si aggiungono i vari Stefano Dionisi, Denise Tantucci, Tommaso Ragno, Teco Celio e Francesco Acquaroli.
A tratti macchinoso, schematico, Tre piani – che dalla sua ha però una più che discreta tenuta a livello di tensione narrativa d’insieme e un'indubbia apertura alla speranza – manca dell’elemento principe che contraddistingueva ogni precedente lavoro di Moretti (che si ritaglia poche pose, recitate come se stesse “recitando”, probabilmente per rimarcare la natura robotica di un padre-giudice, preimpostato e immodificabile), ovvero l’improvvisa scoperta di una spontaneità emotiva, un sobbalzo umoristico, che ne custodiva il cuore.
Margherita Buy e Arianna Serrao in Tre piani - cr. Fandango/Sacher Film
Rintracciabile stavolta in alcune, sparute, circostanze: la riscoperta di una vecchia segreteria telefonica dalla quale riascoltare la voce insicura di un bambino ormai adulto e andato via per sempre, o il doppio sguardo madre-figlia (immaginato) e madre-figlio con cui si chiude il film.