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Transformers - L'era dell'estinzione
“Ricordatevi di Chicago”, recita un cartello piantato nella polvere di una strada sterrata. Per gli smemorati, Chicago fu teatro dell'epico scontro finale di Transformers 3, in cui Autobots (i buoni) e Decepticon (i cattivi) se le diedero di santa ragione, distruggendo qualunque cosa capitasse loro a tiro: grattacieli, ponti, auto, esseri umani. “Ricordatevi di Chicago” è l'omaggio ai caduti e il monito ai sopravvissuti. L'affettuoso saluto a chi ha lasciato la saga - a incominciare dal protagonista, Shia Labeouf -dopo averla vista nascere, crescere e proliferare. E un avvertimento per tutti gli altri: non è ancora finita.
Messaggio sinistro dal nostro punto di vista. Perché il nuovo Transformers, il quarto del franchise Hasbro (dal 16 luglio nelle sale con Universal), è il punto di non ritorno della cafonissima, cacofonica saga, lo spasmo apocalittico oltre l'orgasmo demolitore, l'estenuante e incontrollabile fiotto di un'eruzione digitale.Non a caso l'elemento umano viene incenerito in una delle primissime sequenze del film e toccherà ai Dinobots – dinosauri robotici che sparano vere palle di fuoco – completare l'opera e rimettere le cose a posto. L'era dell'estinzione – appropriatissimo sottotitolo – si riferisce tra le altre cose anche a questa nuova preistoria del cinema, il passaggio di stato dall'era analogica a quella dei pixel. Pixel pesanti e atrofici, simulacri turgidi e rumorosi, pieni di materia. Il primitivismo visivo di Michael Bay che tocca probabilmente il suo apice, tanto da meritarsi il paginone del Manifesto e un attestato d' “autore” di due stimati colleghi. La mano certamente riconoscibile, la tela che ha in calce il suo nome, e l'arte che resta da parte. E pure il buon cinema. Il regista è di panza, ma la sostanza?
Sgangherato nella sceneggiatura, prolisso per durata, capitalista per destino (tra product placament, marketing occulto e marchette ai partner cinesi che comunque hanno pagato al box office della Repubblica Popolare), questo Transformers 4 affossa persino il più elementare canone della narrazione – una missione, un eroe, un villain – per darsi inverecondo all'estasi cataclismatica di un protratto memento mori. L'intrattenimento ridotto a sfascio, rumore e nonsense, l'ordalia dell'alfanumerico, il mondo raso al suolo e rifatto al computer. Lo spettacolo che guarda verso di te: abnorme, sovraccarico, eccitabile, eccitato. E sì, noioso.
Una cascata di forme in via di definizione, in moto perpetuo, tracciabili unicamente per risoluzione (digitale) e dissoluzione (analogica), di nuovo e daccapo.
Gli attori in carne ossa (Mark Wahlberg, Stanley Tucci e tutti gli altri) che guardano impotenti i nuovi dominatori e sanno che devono imparare a conviverci. Non sono poi tanto male, vogliono dirci.E poi: la sala, la vecchia sala cinematografica, è morta. Ma dal suo ventre può nascere ancora qualcosa. La semina è iniziata. Disgraziatamente per noi, col donatore sbagliato.