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Tracks
Il viaggio che Robyn Davidson intraprese nel 1977 - 2.700 chilometri da Alice Springs all'Oceano Indiano, 7 mesi di cammino attraverso l'inospitale entroterra australiano in compagnia di un cane e quattro cammelli - acquista oggi un senso tutto nuovo, per quanto ancora controcorrente. Riacciuffare il silenzio, il vuoto, il piacere della solitudine, l'ancestrale ritorno alla natura selvaggia, si rivela, in tempi di Google Earth e colonizzazione turistica, un'esperienza realmente catartica. Un bagno purificante per scrollarsi di dosso la pesantezza del mondo. Un battesimo per occhi che non sanno più vedere, oppressi da immagini su immagini.
Non meno di Cuaron e del suo Gravity, John Curran, americano di nascita ma australiano di adozione, ritrova in Tracks (in concorso) e nel datato on the desert della Davidson, la pista e la bussola per orientarsi tra le mappe interiori dell'uomo moderno, registrando la sua voce sommersa sotto la babele di chiacchiere. Come dice uno dei tanti occasionali compagni di viaggio alla Davidson: "Le parole sono sopravvalutate".
Bisogna prestare ascolto invece ai messaggi che provengono dall'inconscio, ai fantasmi che affiorano attraverso la segnaletica del cinema: quell'invocare un nuovo Spazio contro la civilizzazione "selvaggia" e insieme temerlo, come succede nell'horror vacui siderale evocato da Cuaron. La lingua del cinema è sempre doppia.
In Tracks riecheggia questa doppiezza, è insieme catarsi e rischio l'oltrepassamento del mondo. La giovane Robyn, che trova in Mia Wasikowska un'interprete fisicamente e spiritualmente fedele, conosce la meta del suo viaggio ma non la sua destinazione, il movente più intimo. D'altra parte, come in ogni on the road che si rispetti, la meta è partire, un mettersi in moto puntando, più che alla fine del cammino, alle trasformazioni che il cammino prospetta. La sua lunga camminata nel deserto è così diversa dalla nostra? Non abbiamo anche noi un deserto da attraversare, con le sorprese e i pericoli nascosti, gli incontri fortuiti e quelli che era meglio evitare? E quella solitudine che Mia/Robyn cercava e che d'improvviso sente montare dentro, contro di lei, non è un'esperienza che possiamo fare tutti noi che viviamo, dannatamente ma fortunatamente, in mezzo agli altri? Senza enfasi né spettacolo, Tracks segue una parabola inversa a quella di Into the Wild, pur tallonandolo da vicino: a differenza del novello Thoreau di Sean Penn, la nostra eroina sopravvive perché "accetta" - pur con le dovute riserve e limitazioni - il sostegno dell'altro. Che si tratti del fotografo del National Geographic, del vecchio aborigeno o di una coppia di gentili vecchietti che vive in the middle of nowhere, la Davidson non può prescinderne per la riuscita della sua missione. Quaranta giorni o sette mesi nel deserto costituiscono un crocevia, non un orizzonte. La vita vera, con le sue aspirazioni, responsabilità, gioie e dolori, è sempre altrove, tra gli altri. E' nell'improvviso affiorare di un volto amico, nel ricordo che, ossessivo, ritorna nelle notti di ombre, all'aperto. Pure nel gratuito affetto di un animale.
La mistica di Tracks, che pure ironizza sull'invadenza dei media, dell'uomo bianco e del rumore, è tutta rivolta verso la ricerca di questo spazio fisico e immateriale del silenzio. E' una mistica che affiora con pudore, nella luce semi-documentaristica di immagini che non vogliono mostrare nulla di nuovo, ma mostrare di nuovo. Da un vecchio numero del National Geographic Magazine (il servizio fotografico che Rick Smolan realizzò sul viaggio della Davidson), volti, orizzonti e pulsioni trasmigrano, quasi calligraficamente, nel film di Curran. Non in virtù di un potere mesmerizzante, ma per la spinta verso un dopo che è anche ritorno. Nel presente che, attraverso il cinema, non ne dice più la nostalgia, ma l'ambiguo, profetico (?), avvento.