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Tournée
“Le grida della strada / i passanti i negozi / dove come in un insulto / ti vai a rispecchiare / tra gioielli da poco / e biancheria da niente / ombre / in occhi di donna / che ti vedono passare / tutti questi rumori / dentro i quali ti immergi / nei quali ti esilio / per amarti da lontano / in un gioco sottile / questi trucchi un po' pazzi / tutto questo è il tuo stile”.
Non sappiamo se Mathieu Amalric abbia mai sentito il compianto Leo Ferré, comunque, deve averlo fatto il suo nuovo film, Tournée, con cui torna alla regia otto anni e quattro corti dopo La chose publique. C'è davvero il suo stile e la sua poetica in quei versi, a partire dai gioielli da poco e la biancheria da niente delle protagoniste, ballerine di Burlesque americane in tour europeo: mature e consunte, fragili e volgari, sono loro le muse per il ritorno sulla scena in grande stile dell'impresario Joachim, con le rughe in libera uscita e gli occhi che ne hanno viste troppe dello stesso Amalric.
Premiato per la regia e dai critici all'ultimo festival di Cannes, Tournée è il film fesso, destrutturato e balordo che si archivierebbe frettolosamente, viceversa, merita e rimane nelle sue incongruenze, nelle sue aporie, nel suo legarsi per filacci mondani alla tradizione dell'incompiutezza anni '70, mettendo nel flute il circo di Fellini e (nel finale) la possibilità di un'isola dell'Invenzione di Morel di Emidio Greco, la pausa di senso di Antonioni e il barocco caduco di Visconti.
Per alcuni debolezze da mettere al muro e stigmatizzare, le secche di sceneggiatura, le inversioni e involuzioni portate in dote da Joachim, il turbinio iperrealistico di corpi danzanti ma più spesso sfatti, la stasi dei numeri che non tornano mai sono, al contrario, pamphlet da avanspettacolo, critica divulgativa e smodata rispetto alla recidiva, immarcescibile società dello spettacolo.
Ma senza sociologismi né elucubrazioni, perché quello di Amalric non è cinema raziocinante, bensì spleen a buon prezzo, esistenzialismo prêt-à-porter, mood da BoBo senza fissa dimora, in primis quella autoriale: esile la trama, ma centrifugata dal passato che non passa di Joachim, le lusinghe del successo che fu e non sarà più, le ferite familiari infettate dallo showbiz, l'ebbrezza di un bacio rubato, insomma, la versione pervertita e fin troppo immanente del dettato paolino: “Nel mondo, ma non del mondo”.
Nuovo? No, vecchio, anzi, usato insicuro, infido, eroso da una recitazione incrinata e rotta come la vita, colta nel suo farsi, ma senza tallonamento neorealistico: viene in mente il cinema sul cinema di Abel Ferrara, Snake Eyes e Blackout su tutti, mentre Amalric tra “il miracolo della scena neorealistico” e”il miracolo dell'osceno americano” sceglie deciso il secondo, facendo del fuoricampo interno il territorio presente-assente del fallimento personale e dell'esilio del cinema dal nostro immaginario contemporaneo. C'è nostalgia, anche compiaciuta, ma non peregrina: i corpi vengono messi a nudo, ma celati, la satira del Burlesque sconfitta da coreografie a tirar via, l'eccesso pastorizzato dalla rievocazione. Forse, la Tournée è quella della memoria, portata e presa in giro, nella certezza della sua estinzione. Giù il sipario.