PHOTO
Totem - Il mio sole
Il sole illumina la terra, lo sappiamo bene. La sua luce e il suo calore sono generatori di vita. E proprio come il nome che porta, anche Sol, una bambina di sette anni, porta luce e calore a chiunque la incontra, primi fra tutti i suoi famigliari. È ignara, tuttavia, che il padre sta affrontando il terribile calvario di un cancro che lo debilita sempre più, con tutte le conseguenze che questo porta alla grande famiglia che abita nella casa padronale e che si sta preparando proprio alla festa di compleanno dell’uomo. La luce di Sol diviene, quindi, ancor più necessaria per rendere meno buio il difficile momento che la famiglia sta affrontando.
Opera seconda della messicana Lila Avilés, dopo il folgorante esordio con La camarista (2018), Totem - Il mio sole, co-produzione messicana, danese e francese, è stato presentato al 73° Festival internazionale del cinema di Berlino dove ha ricevuto il Premio della Giuria Ecumenica ed è stato scelto dal Messico come rappresentante nazionale per l’Oscar al “miglior film internazionale”, riuscendo ad entrare nella shortlist dei 15 titoli finalisti ma non nella cinquina.
Avilés con garbo e delicatezza, senza rinunciare all’ironia, inquadra – letteralmente grazie all’uso del formato 4:3 e con la frenesia di una camera a spalla – l’affresco di una famiglia estesa intenta a vivere una giornata molto speciale. Luci e colori vivaci si scontrano con l’ambientazione soffocante di questa casa sì grande, ma piccola per le numerose persone che vi abitano, fra il nonno neo-vedovo che parla attraverso un laringofono e i cugini chiassosi, le zie alle prese con una fattucchiera a buon mercato e gli animali che scorrazzano liberi fra le varie stanze.
Ogni famigliare viene introdotto allo spettatore dallo sguardo di Sol, la quale diviene un rilevatore di sensazioni e movimenti, uno spirito guida vigile e imprescindibile. Ed è proprio questo intreccio fra luce calorosa e buio opprimente che segna la progressiva perdita dell’innocenza di Sol, chiamata troppo presto a diventare adulta, senza rinunciare a quel retaggio luminoso che ha ricevuto quasi in eredità dal padre il cui nome, Tonatiuh detto "Tona", orgogliosamente mesoamericano, rimanda al termine azteco per identificare il dio Sole. Intorno a lei tutti tentano di censurare parole come chemioterapia e morfina, scomponendole per essere meno comprensibili e per sottrarla all’inevitabile epilogo, ma la piccola Sol sembra essere ben conscia di quanto sta avvenendo.
È quasi un monito a non sottovalutare l’intelligenza e la sensibilità dei bambini che, ahimè, sempre più spesso, in un mondo dove non sono affatto digiuni da parole e immagini di violenza, morte e guerra, vengono però sottratti alla dimensione della malattia e del lutto, perché ritenuti troppo piccoli e impressionabili, e quindi impediti, ad esempio, al partecipare alle esequie del nonno perché lo deve ricordare com’era prima. Non sorprende, quindi, che un film come questo sia una produzione messicana, dove la celebrazione della morte, e soprattutto del ricordo dei defunti, il “Día de los muertos” è festa nazionale e affonda le sue radici nella tradizione precolombiana (si recuperino gli ottimi film d’animazione Il libro della vita del 2014 e Coco del 2017).
Un film intimo, personale che si nutre di liturgie collettive (vedasi la festa di compleanno che suona già come un elogio funebre) e di ritualità più individuali, tra il magico e l’esoterico, in uno stretto legame con la terra e con il ciclo eterno della vita e della morte, che portano equilibro dentro al caos e al disordine. Come in questa grande famiglia dove il caos sembra regnare sovrano finché la vita (o la morte) non riporta ordine.