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Ermanno Olmi sul set di torneranno i prati
Fa male, fa tanto male “il grande tradimento compiuto nei confronti di milioni di giovani e civili morti in quella guerra senza che sapessero perché”. Che fare? Un film, partito su commissione, ma cresciuto con quell'amore per il cinema , per l'uomo e per gli ultimi tra gli uomini che da sempre sono il marchio di fabbrica di Ermanno Olmi.
torneranno i prati, dunque, e Olmi cita Camus, “se vuoi che un pensiero cambi il mondo, prima devi cambiare te stesso”, per illuminare la cifra poetico-ideologica di un film che è qualcosa di nuovo sul fronte nord-orientale: siamo all'alba di Caporetto, nel 1917, e un avamposto italiano ha l'ordine di trovare un altro posizionamento per spiare la trincea avversa. Non è un ordine, quello che arriva dagli alti comandi per mano del maggiore Claudio Santamaria, ma un diktat per il massacro. torneranno i prati non elude quel massacro, ma fa di più, altro e meglio: dice la verità umana della guerra, mette in bocca ai soldati abbandonati al freddo e febbricitanti in prima linea l'indicibile, ovvero quello che l'amor patrio avrebbe dovuto scongiurare, cancellare.
“Nei nostri sogni non c'era la morte”, dice uno, “Quando sentono l'odore del sangue le bestie cagano e pisciano prima di andare al macello… siamo bestie anche noi?”, si chiede un altro. Piovono bombe, un larice, “albero bellissimo”, sembra d'oro e tale diventa nelle fiamme, mentre i colpi di mortaio zittiscono il conducente di mulo che cantava agli austriaci Tu ca nun chiagne, ribaltano lo status quo, disattendono gli ordini, aprendo all'espressionismo pacifico del regista. Oltre tre metri e mezzo di neve a seppellire le due trincee ricostruite a 1800 e 1100 metri d'altezza, temperature glaciali, tanta solidarietà e un po' di grappa per riscaldarsi, il set è stato speciale, ma normale per Olmi: fraternità, oggi come allora, quando ti trovavi a sparare a chi era come te, nella trincea di fronte. Un paradosso, ma solo per chi la Grande Guerra e le altre non le ha combattute e non le ha intese: Olmi non usa la matita rossa per correggere gli errori della Storia, scritta dai vincitori e dai vincenti, ma sull'Altopiano di Asiago ricordava ai suoi attori Santamaria, Alessandro Sperduti, Francesco Formichetti, Andrea Di Maria, Camillo Grassi e Niccolò Senni che “voleva soprattutto che fosse un film utile, voleva – ricorda Di Maria - che sentissimo il sangue sotto quella neve bianchissima”. Qui, tra il sangue che non c'è più e il nitore diffuso dell'Altopiano, scorre il film, che è tanto, ma mai troppo: neorealismo e realismo magico, impressionismo teatrale ed espressionismo fantasmatico, Kammerspiel da trincea e apologo umanista, villaggio di cartone e albero (larice) degli zoccoli.
Speriamo non sia l'ultimo di Ermanno, ma è un film-summa, che evangelicamente ricorda come gli ultimi saranno i primi, ma solo se qualcuno sa raccontarli: senza appigliarsi alla storiografia ufficiale, Olmi si guarda in casa (il padre soldato), prende dagli illetterati e trova l'alfabeto della pace. Quello che istruiva La grande illusione di Renoir, La grande guerra di Monicelli e pochi altri, e che sola sa dire: No alla guerra!