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Il cinema esegue un salto triplo sul ghiaccio in Tonya, un biopic anomalo, vibrante, che denuncia le ipocrisie della società contemporanea. Tonya Harding ha infiammato il mondo del pattinaggio all’inizio degli anni Novanta, quando ancora scivolava veloce nei palazzetti di tutto il globo. Lei era la figlia del mito targato Ronald Reagan, di quel liberismo che avrebbe rilanciato il sogno americano. Non a caso la foto del presidente compare anche sul muro di un garage, per ricordare che se un attore poteva sedersi nello Studio Ovale, anche una ragazza di Portland sarebbe arrivata alle olimpiadi.
Lei non è la principessa di una favola per bambini, i risultati li ottiene col sangue e con le urla di una madre che non accetta il fallimento. A tre anni, Tonya è già schiava delle sue passioni. Il “sergente in gonnella” che la mantiene ha costruito una campionessa in miniatura, che non può abbandonare la pista neanche per andare in bagno. I pattini nutrono la sua anima, le botte induriscono il suo corpo.
La violenza diventa il pane quotidiano nelle giornate di Tonya, sempre malmenata da chi invece dovrebbe proteggerla. Lo scandalo nasce dagli schiaffi, da una fanciullezza che se n’è andata con gli allenamenti selvaggi e l’impossibilità di ricevere una carezza. Più che per meriti sportivi, lei viene ricordata per l’aggressione all’avversaria Nancy Kerrigan, nel 1994, dopo un allenamento. Il resto è storia, ma non dimentichiamoci che fu la seconda al mondo ad eseguire un triplo axel, un salto che quasi trent’anni fa illuminava i volti di appassionati ed esperti. Poi tutto si è spento.
Il film di Craig Gillespie (L’ultima tempesta, Fright Night) punta il dito contro una società di maschere, che si preoccupa solo dell’apparenza. La verità non interessa a nessuno. La Federazione deve promuovere un’atleta che sia un esempio sano per il Paese, non una ribelle che insulta i giudici durante la gara e sembra uno scaricatore di porto nei modi e nel linguaggio. L’immagine è essenziale, il talento passa in secondo piano. I media plasmano gli eventi, non si interrogano sulle cause o sui drammi che hanno preceduto la follia: per fare audience bisogna alzare il volume, sembra gridare il regista. E nell’era delle fake news, fa più ascolti un albero che cade di una foresta che cresce.
Qual è la verità? Di chi ci si può davvero fidare mentre si rivolge direttamente alla platea? Ognuno ha la sua versione dei fatti, e la sensazione è che non sapremo mai dove la cronaca si trasforma in inganno, un raggiro che la sportiva di turno deve mettere in piedi per sentirsi innocente. Assolta dal pubblico, condannata per l’eternità. Già Kurosawa si interrogava sul limite di ogni punto di vista, sull’impossibilità di svelare il mistero che si nasconde dietro alla violenza. Bisogna superare le apparenze, andare oltre gli ammicchi e le lacrime (spesso di coccodrillo), e forse, anche così, lo spettatore non riuscirà a riemergere da questa pioggia di bugie.
La macchina da presa è il primo inquisitore: non abbandona mai Tonya, non la lascia respirare. I carrelli la inseguono sulla pista nelle sue indimenticabili evoluzioni, i primi piani catturano i falsi sorrisi alla fine di ogni gara, quando lei vorrebbe piangere di dolore perché, in realtà, è sola. La protagonista ha le sembianze angeliche di un’intensa Margot Robbie, che regala la migliore interpretazione della sua carriera. Ne ha fatta di strada da quando era la sventola di The Wolf Of Wall Street: adesso si imbruttisce per essere molto più di una bionda armata di solo glamour.
Tonya riesce anche a far ridere a denti stretti e racconta la parabola di una vita turbolenta, di una donna forte che non è mai riuscita a essere l’eroina che tutti volevano. Gillespie chiede ai suoi attori di sfondare la quarta parete, di parlare al pubblico attraverso delle interviste girate per l’occasione, giocando con il documentario e la commedia amara. I generi si fondono, i sogni s’infrangono, mentre l’incontenibile Tonya ci stupisce con un altro triplo axel.