Potere alle donne. A quelle forti, sicure, e a coloro che “devono ancora trovare la voce per farsi sentire nel mondo”, come spiegava Steven Spielberg in occasione del lancio di The Post. Ma il fenomeno Tomb Raider non nasce in quest’epoca di grande fermento. Affonda le sue radici ben prima di Time’s Up o Me Too. Risale al 1996, alle notti in cui i videogiocatori sfogavano il testosterone davanti a una consolle, saltando da un enigma all’altro in compagnia di un’avvenente cercatrice di tesori. Canottiera attillata, forme ben in evidenza e anima da Schwarzenegger o Stallone: i cattivi possono solo tremare.

Lara Croft interpretata da Alicia Vikander sembra più umana rispetto all’Angelina Jolie di Tomb Raider (del 2001) e del seguito La culla della vita. Non ha l’anima della pin up agguerrita, e sfoggia un fisico marmoreo, frutto di mille allenamenti, con addominali ben in vista. Nervosa, mingherlina, colpisce con lo sguardo ardente e il viso angelico, che l’ha consacrata nel gotha di Hollywood e ha fatto perdere la testa a Michael Fassbender, anche se il set galeotto de La luce sugli oceani e l’Oscar per The Danish Girl sembrano lontani anni luce.

 

Questa volta deve picchiare duro, sconfiggere nemici millenari, e dimostrarsi una degna discendente di Prince of Persia e dei suoi inganni tra le sabbie del tempo. Lara ha ventun anni, ed è figlia di un eccentrico avventuriero scomparso sette anni prima. Potrebbe essere ricca, ma non vuole accettare la morte del padre, rifiutando di firmare per l’eredità. Sempre in bolletta, si forgia in palestra e cerca di pagarsi l’iscrizione con le consegne a domicilio.

La nostra campionessa non si interessa di archeologia, fino a quando scopre una pista per ritrovare l’amato genitore. Parte per Hong Kong e si lancia all’inseguimento di una leggendaria imperatrice dall’indole sanguinaria. Ma qui la vera maledizione è quella dei videogiochi portati sul grande schermo. Doom, Tekken, Final Fantasy, Resident Evil, Assassin’s Creed, e l’elenco potrebbe essere ancora lungo: nessuno è mai riuscito a entusiasmare anche nella sala di un multiplex. E Tomb Raider non inverte la tendenza.

I primi due capitoli erano girati con scarso mestiere e, rivedendoli oggi, fanno quasi sorridere. Questo reeboot, dovuto anche all’acquisizione del marchio da parte della Square Enix, è una strombazzata avventura grafica, un’orgia di effetti speciali, con la macchina da presa che si muove come se fosse impazzita, specialmente nei momenti più concitati. La protagonista non trasmette emozioni: il suo personaggio è piatto, quasi impassibile, e si scompone solo in un paio di sequenze strappalacrime. Lara Croft incassa più botte di Bruce Willis in Die Hard, ma si rialza sempre pronta a scatenare l’inferno.

Il film strizza l’occhio a Indiana Jones, a King Kong, con la sua Isola del Teschio, e costruisce l’intera storia sulla casualità. Sono gli indizi a trovare i Croft e non il contrario, proprio come in un videogioco. Lo si potrebbe definire un film su piattaforma, ma il cinema ha bisogno di altri eroi.