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Quattro è meglio. Il quarto film dell'enfant prodige quebecoise Xavier Dolan è il suo migliore: dopo l'esordio J'ai tué ma mère del 2009, dopo Les Amours Imaginaires del 20120 e Laurence Anyways dell'anno scorso, Tom à la ferme, in Concorso a Venezia70, ce lo riconsegna più maturo nella drammaturgia, consapevole nella poetica, empatico nella forma, assemblata dalle musiche fondamentali di Gabriel Yared.
Dalle pièce di Michel Marc Bouchard, inquadra un giovane pubblicitario, Tom (Dolan), che arriva in una fattoria sperduta nella campagna per un funerale: la madre Agathe (Lise Roy) non sa che il figlio deceduto era il compagno di Tom, e l'altro figlio Francis (Pierre-Yves Cardinal) fa di tutto perché non lo sappia. Ovvero, ingaggia con Tom un gioco di ruolo fatto di violenza fisica, intimidazioni e menzogne, affinché Agathe viva nell'illusione al riparo della verità: suo figlio, almeno uno dei due, era gay, e aveva un compagno che lo amava. Ma non si può dire, Francis non vuole, e dopo botte e strattoni addirittura l'auto di Tom finisce sui ceppi: non se ne deve andare, meglio stia in quella fattoria, Agathe è contenta, e in stalla una mano serve sempre.
In campo entra anche la sindrome di Stoccolma, perché la vittima Tom ci prende gusto: con Francis le vibrazioni non sono sempre negative, la tensione anche erotica, e vedere nascere un vitellino fa spuntare le lacrime. Grande è la confusione sotto il cielo, eppure, ha scritto Bouchard, “prima di apprendere ad amare, gli omosessuali apprendono a mentire”. La coercizione, ça va sans dire, è della partita.
Thriller ad alto voltaggio esistenziale, passo doppio di verità e finzione, mèlo senza nostalgismi e con il presente-futuro in testa, Tom à la ferme è tante cose, soprattutto, crediamo, un film d'amore, lastricato di ostacoli, violenze e complicità. Perché nella vecchia fattoria c'è un mondo da lasciarsi alle spalle: faticosamente, per amor proprio, per dignità umana. Il fattore umano, altro che fattoria.