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To Kill a Mongolian Horse
In una puntata di Dharma & Greg, sit-com anni ’90 su un’insolita coppia di sposi, la madre di lui, donna snob dell’alta borghesia chiede in prestito alla mamma di lei, una hippy, un abito da usare come costume per Halloween. Una volta indossato alla domanda su come le stesse, la hippy le risponde: “Quello che per te è un costume, è per me un vestito di tutti i giorni”.
Ho sempre tenuto alla mente questa citazione udita da bambino, che la visione di To Kill a Mongolian Horse mi ha rievocato, assistendo a scene – che da euforiche pian piano provocano un forte disagio fino al climax finale – nelle quali i protagonisti sono chiamati, se non addirittura costretti, a indossare costumi tipici, esibirsi in performance cavalleresche o anche semplici canzoni tradizionali a cappella, per il gusto e lo sfizio di chi detiene posizioni sociali elevate per ceto, denaro o etnia (è forte la denuncia rispetto ai cinesi nei confronti del popolo mongolo).
A scrivere e dirigere il film è Xiaoxuan Jiang, nata nella Mongolia Interna, regione autonoma della Cina, ed emigrata per gli studi a New York, la quale esordisce al lungometraggio dopo il pluripremiato cortometraggio Graveyard of Horses (2022), anch’esso dedicato alla fredda steppa mongola.
To Kill a Mongolian Horse è ispirato a fatti realmente accaduti a Saina, un mandriano mongolo che, per guadagnare di più, alla sua normale attività lavorativa in piena crisi economica, si è visto costretto ad aggiungere quella di cavaliere alle fiere dei cavalli, e che interpreta se stesso nel film.
Lo sguardo di Jiang, a tratti documentarista, non esista a mostrare le molteplici contraddizioni di un mondo decadente nel quale i cavalieri, come afferma la regista, sono diventati “oggetto di uno sguardo feticista che celebra non solo la mascolinità ma anche l’identità etnica”. Alle esibizioni dense di virilità e potenza, si affiancano i post-serata con uomini dediti all’alcol fino a stare male, unica apparente soluzione a una società che si sta dimenticando di loro e che ha trasformato una identità fiera in un folklore di bassa lega necessario per la loro sussistenza, non più possibile con il solo lavoro quotidiano.
Degna di nota è anche la moglie di Saina, chiamata allo stesso modo a “svendere” la propria tradizione mentre serve a tavola ricchi cinesi. Sullo sfondo resta la rappresentazione dell'acuta disuguaglianza economica della Mongolia Interna che ha esacerbato le tensioni etniche, dando l'impressione agli abitanti di etnia mongola di venire emarginati all'interno della propria terra. Tutto ciò ha portato alle proteste del 2011, suscitate dalla morte di un mandriano, investito mentre tentava di fermare un convoglio di mezzi pesanti carichi di carbone intento a passare attraverso le praterie.
Ad impreziosire la pellicola sono alcune scelte del direttore della fotografia che esalta così i contrasti, specialmente nelle scene notturne e durante le nevicate di una regione semi-desertica, come semi-desertico è ormai il cuore e l’anima di un popolo che pian piano si sta spegnendo. E il finale, mentre i titoli di coda corrono lungo lo schermo, con profonda amarezza segna questa tensione sia sociale che interiore.