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Titina
Il viaggio in dirigibile al Polo Nord di due esploratori negli occhi di un cane. Basterebbe questa mini-sinossi per dare la cifra della qualità stilistica e narrativa dell’esordio al lungometraggio per Kajsa Næss (regista norvegese con alle spalle una decorata carriera di film brevi).
Il film, però, ha anche altre virtù: l’equilibrio registico - non scontato e subito stabilito– tra l’animazione e pregevoli filmati d’epoca (inseriti forse per economia, ma che aumentano anche il portato realistico-documentario della vicenda), unito allo sguardo ribassato e riflesso. In più spicca la capacità di convocare ed equilibrare più registri: il comico-umoristico, l’avventuroso, il documentario, la satira politica, gli inserti immaginifici, per non dimenticare l’affresco storico e l’intimismo psicologico, tutti uniti e cementati dal fondo favolistico alla base della storia.
Perché tutto questo ventaglio, gravido di riferimenti cinematografici, ha come comun denominatore di sguardo, tono ed emotività un tenero Jack Russell terrier. Titina incontra per caso a Trastevere l’ingegnere Umberto Nobile. La strana coppia diventa presto inseparabile, anzi complementare perché quando, nel 1926, Nobile costruisce per l’attempato esploratore norvegese Roald Amundsen (ancora oggi autentico mito in patria) un dirigibile che metta piede sul Polo Nord, cane e padrone salgono insieme sul velivolo.
La spedizione italo-scandinava, sorvegliata dal quadrupede, ha successo nonostante le scintille tra i due condottieri. È il ritorno in Italia, però, che scoperchia il vaso di Pandora per l’ingegnere: scopre che tutti i giornali applaudono Amundsen e ignorano lui.
L’onta è troppa: Nobile si rivolge direttamente a Balbo e al Duce in persona per avere giustizia che prende forma di un dirigibile nero con la scritta Italia sulla pancia. Il nuovo volo del 1928, però, alla riconquista del Polo Nord, si schianta nella tormenta di neve. Isolati, cane e padrone, Nobile e il resto della spedizione italiana cercano aiuto, ma Balbo taglia i ponti di ogni sussistenza gettandoli nella disperazione. Quella sussistenza, però, che inaspettatamente offre loro l’egotico Ramundsen con l’ultimo verso il Polo Nord.
È proprio questo strisciante, sotterraneo senso di morte incombente, di Tempo che stritola il destino umano, di caducità inevitabile, di eroismo tragico che dona spessore a un film all’apparenza brioso e leggero, ma capace di forgiare con minimi tratti due personaggi titanici, alleati e insieme nemici, assetati di gloria e visionari, romanticamente tragici nell’anteporre la sete di avventura ai limiti brutali dalla Natura.
Il filtro canino di sguardo, allora, serve a ridurre il peso epico e la gravità tragica alla storia conservando l’intonazione intenerita da favola morale che di riflesso, perfino, si rivela anche anatema politico: tralasciando il regolamento di conti interno alla Norvegia intorno all’ambiguità del mito Ramundsen, secondo chi scrive questo Mussolini caricaturato, mascella enorme e gambe come grissini, ottuso e egolatrico, proprio perché iperbolico è tra i più autentici visti al cinema negli ultimi anni.