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Il buonismo e la fede si scoprono compagni di squadra durante una partita di pallacanestro, dove si vorrebbe raccontare la crescita interiore di un ragazzo che è stato baciato dalla fortuna. In Tiro libero, Dario è un ragazzo bello, aitante, capitano del team di basket. Tutte lo cercano, tutte lo vogliono e lui si sente una divinità. L’arroganza è il suo pane quotidiano, suo padre è un ricco imprenditore e la madre soddisfa ogni suo più inutile desiderio. La casa di Dario è un castello con piscina, e attorno a lui bivaccano i suoi sudditi, che lo adorano come una stella di Hollywood o, per rimanere in tema, dell’Nba.
Dario si destreggia tra un successo sportivo e una festa alcolica, fa cadere le ragazze dal motorino e si comporta come il bel tenebroso che non deve chiedere niente. Il copione è blindato fin dalla prima sequenza e non può regalare nessun colpo di scena. Il presuntuoso venticinquenne dovrà pagare per tutte le sue bravate e trovare la redenzione con qualche opera di bene. Come Marcellino pane e vino, Dario parla al crocifisso, che fortunatamente non risponde. La religione diventa il parafulmine di tutto ciò che non lo soddisfa, e lui più volte sfida il Signore invitandolo a colpire quelli che davvero lo meriterebbero.
Detto fatto, Dario scopre di avere la distrofia muscolare. Dio lo ha punito, e ha ribaltato ogni insegnamento del catechismo versione base. Il “cattivone” deve lasciare lo sport, compiere un percorso di crescita interiore, e andare ad allenare un gruppo di ragazzini in sedia a rotelle. Qui il protagonista scopre l’amore, se stesso e anche lo spirito di abnegazione verso il prossimo. La melassa rischia di stroncare la platea, e il sapore è quello di una serie televisiva pomeridiana. Gli ingredienti sono i sentimenti stucchevoli e le lacrime a spiovere. Non esiste cattiveria e tutti continuano a volersi bene, in un mondo manicheo e del tutto finto.