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L'uomo è solito attribuire maggior valore a se stesso distorcendo e reprimendo la propria natura, allontanandosi da sé, mortificando i propri istinti primari, i propri slanci più spontanei, quelli che lo identificano e lo rendono vivo. È un disprezzo, un disconoscimento del proprio essere, un provare talmente poco amore per se stesso da trovare merito, pregio e un legittimarsi nell'essere altro da sé. Digiuno, astinenza sessuale, superamento di qualsiasi attaccamento, rinuncia a gratificazioni di qualsivoglia genere, vengono perseguiti come indice di valore. Istinti che costituiscono parte fondamentale di un essere umano assumono una connotazione negativa, fino a doversene vergognare.
In Tikkun di Avishai Sivan – presentato al Torino Film Lab dopo il passaggio a Locarno, dove ha vinto il Pardo d’Argento - incredibilmente bella la scena in cui quella vergogna è rappresentata in un quaderno piccolissimo, nascosto con cura. Una volta aperto risulta strapieno di frasi illeggibili perché cancellate con forza. Tutto questo ha delle conseguenze pericolosissime. Il film affronta questo tema in maniera sublime. Sivan sceglie come ambientazione una sorta di ghetto abitato da una comunità ebraica ultraortodossa. La rigidità del modo di vivere di queste persone, la loro estrema chiusura al mondo esterno, rappresentano il substrato ideale su cui sviluppare una tematica come questa.
L'uomo dunque si ama così poco da arrivare a preferire la morte, a calpestare il suo affetto, anche quello gigantesco e intenso per il proprio figlio, quanto di più istintivo e primordiale possa esistere in un essere umano, pur di aderire a qualcosa di esterno a sé che reputa più alto, migliore. E allora ha bisogno di morire, di sperimentare la morte di quel corpo e di quell'anima per iniziare a sentirla, a sentire le proprie istanze, i propri bisogni, e a sperimentare la sensazione rigenerante del nutrirsi di sé, a capire quanto sia una necessità.
Si assiste al processo bellissimo di una progressiva umanizzazione di chi si è mortificato e svilito per tutta la sua esistenza, cresciuto in un ambiente in cui l’ammirazione è proporzionale all’annientamento da sé, in cui il sangue del proprio sangue vive dell'uccidere la carne, del rinchiuderla in un frigorifero, meravigliosa metafora della sessualità soffocata e repressa. E allora, man mano che inizia a sentirsi e a rispondersi, a rispondere al proprio essere, vediamo una vera e propria trasformazione: anche le espressioni del viso diventano nuove e distese, la muscolatura di un braccio che si contrae nella collera, il concedersi di godere della luce e del calore del sole sulla pelle, di assecondare la voglia di abbracciare un fratello, il bisogno di contatto fisico, di condividere questa novità con qualcuno.
Esemplare e incantevole la scena del protagonista che saltella sotto la pioggia. E ancora più bello il momento in cui ascoltiamo la sua scoperta del riposo, della semplicità del lasciarsi andare all'accoglienza di un letto, alla libertà di addormentarsi, "di sognare, svegliarsi ed essere debole, per poi riguadagnare forza". Tanto più verrà deriso, ripreso, percosso, disconosciuto e rifiutato quanto più si avvicinerà a se stesso.
Finale meraviglioso in cui sesso, amore e morte si uniscono in un'unica intensa forza che prevale su qualsiasi cosa. Bellissima la figura del padre del protagonista che, in tutta la sua ottusità e chiusura, tenta pur senza riuscire di capire quell'essenza negata per troppo tempo. Per quanto, in un attimo di lucidità, lasci andare quella carne che poserà il suo sguardo incredibilmente dolce sul figlio finalmente libero.
Il titolo del film, Tikkun, deriva da un termine mitologico che descrive l'anima che recupera la propria vita attraverso la morte del corpo.