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La chiave è nel tono, nella commedia che per statuto si fonda su storie che in un momento possono volgere in dramma – e viceversa – a seconda delle intenzioni di chi le racconta, degli umori di chi le abita, delle tracce che affiorano per ricordarci tutti i nostri ieri. E però non è contraddittorio che Thunderbolts* (nell’asterisco si nasconde uno spoiler) sia tra i capitoli più cupi e sinceri del Marvel Cinematic Universe (la contabilità ha un peso: il trentaseiesimo in diciassette anni, l’ultimo della cosiddetta Fase Cinque), nonché uno dei più precisi nell’indovinare l’angoscioso sentimento del tempo, la necessità di una concordia internazionale, la cura personale nella riscoperta del collettivo.
È la commedia, appunto, a darci la misura delle cose, anche grazie al corpo comico di Julia Louis-Dreyfus, che porta in dote l’esperienza di Selina Meyer, indimenticata vicepresidente di Veep: con la ciocca bianca e gli outfit “rassicuranti” della contessa Valentina Allegra de Fontaine (i natali sono italiani), direttrice della CIA messa in discussione dal Congresso, la magnifica attrice aggiorna, stilizza ed esaspera quel personaggio, donando carisma minaccioso, consistenza ridicola e cinismo grottesco a una delle villain più politiche degli ultimi tempi. È un passo in avanti rispetto alla programmatica e ormai un po’ abusata demenzialità di Deadpool, che restituisce alla Marvel quella capacità – tipica della migliore commedia americana – di inquadrare il presente (e in questo caso senza perdere di vista il fanservice).


Usciti da un capitolo, Captain America: Brave New World, in cui il cattivo era addirittura lo stesso presidente degli Stati Uniti, non possiamo non osservare come le facili allegorie e i sottotesti di Thunderbolts* raccontino molto di quest’America sì fantastica ma sintonizzata sul contemporaneo (non che quella reale si discosti da orizzonti distopici): l’alibi del bene per perseguire il male, il pericolo delle tecnocrazie (il progresso scientifico al servizio del potere genera mostri), il disprezzo per gli emarginati (di solito chi si professa underdog è dentro il sistema), il culto del successo e l’irreversibilità del fallimento sono solo alcuni dei temi che attraversano questo film dedicato ai dropout, ai dimenticati, a chi corteggia il buio.
È un film pieno di spiragli sul dolore represso, memorie resettate, porte aperte sul passato che non passa, botole che sprofondano nel nulla. Ed è un film fatto dai suoi personaggi: Yelena Belova, la terza Vedova nera, programmata per uccidere ma perseguitata dai fantasmi; Bucky Barnes, il Soldato d’Inverno diventato assassino e ora deputato impotente; Red Guardian, la controparte russa (ovvero la “caricatura”) di Captain America; Ghost, esperimento da laboratorio a cui è sempre stata preclusa una vita normale; Taskmaster, che esiste in quanto emulazione del nemico; John Walker, disastroso erede di Steve Rogers affetto da disturbo da stress post-traumatico (ottimi Florence Pugh, Sebastian Stan e Lewis Pullman).
Nel suo presentare un gruppo disfunzionale di antieroi sgualciti (gli Avengers avevano decisamente un’altra allure), innesca empatia e riconoscimento; nel suo tenere dentro umorismo e inquietudine, annuncia una fase interessante per un franchise sempre più stanco (in sceneggiatura Joanna Calo, finora soprattutto televisiva, ed Eric Pearson, impegnato anche nel prossimo I Fantastici Quattro – Gli inizi; alla regia, Jake Schreier, ex indie poi quasi Emmy per Beef – Lo scontro); nel suo bastare a se stesso, è un cinecomic godibile e finalmente divertente.