Spiazzati. E' la prima reazione da spettatori a This Must Be The Place. Non è detto sia un male. Era molto atteso, è venuto fuori qualcosa che non ci attendevamo. Un'opera che appartiene sì a Paolo Sorrentino, ma che Sorrentino stesso prima non aveva mai fatto. Non così. Il viaggio in America del regista napoletano regala anche risposte. Conferma il suo indiscutibile valore come cineasta di caratura internazionale, la maestria tecnica, l'inconfondibile impronta autoriale. Pure se lasciata in uno spazio non suo, già congelato nella memoria, esplorato in lungo e in largo. Lo spazio americano, luogo fisico e mitologico, una traiettoria dello sguardo e un itinerario interiore. La frontiera da attraversare per ogni viaggiatore. Uno spazio che definisce un genere, l'on the road. Che a sua volta impone un registro espressivo, una struttura drammaturgica, una tradizione consolidata, tutta americana.
E' in questa bolla di immaginario che Sorrentino inscrive il suo. Il risultato è Chayenne (Sean Penn), l'indiano, l'altro, l'alieno. Qualcuno che si fa fatica a riconoscere, che è difficile accettare. Che fatica a riconoscere lo spazio intorno a sè. Un personaggio fortemente iconico, perturbante come una maschera di carnevale, un uomo che ha abbandonato il palcoscenico (Chayenne è un'ex rockstar) ma è rimasto spettacolo, pantomima offerta agli altri.
Chayenne è Sorrentino e anche Sean Penn, perché di entrambi rappresenta la diversione prospettica, il cambio di scena, la scommessa. L'alieno e l'azzardo. La fobia che imprigiona e il coraggio che libera. Sean Penn rischia di perderla questa sfida, ma alla fine la vince. Agghindato come il leader dei Cure (Robert Smith), lento, affettato, vagamente nevrotico, suscita all'inizio ilarità. Ma lentamente cresce, si inabissa dentro il suo personaggio, fino a diventarlo. E quando alla fine torna Sean Penn - senza smalto nè parrucca - non c'è shock. Era sempre stato Chayenne. Il viaggio attraverso l'America, pilotato dal suo occhio alieno più che dal desiderio di vendicare il padre (scovando il vecchio nazista che l'aveva perseguitato nei campi di concentramento), appartiene tutto a Sorrentino invece. E non solo per l'ironia, i virtuosismi di macchina, l'icasticità di alcune sequenze o lo stupore evidente con cui il regista vede, sente la "terra dell'abbondanza". Ma perché la sua poetica è sempre stata a fianco dei "Chayenne", improntata al gioco, consumata nella stagione dell'infanzia. Chayenne come Il Divo è un bambino invecchiato. Il gioco e la paura, il candore è l'avventatezza - caratteristiche del bambino - sono il modo di stare al mondo dei personaggi di Sorrentino. Non a caso, al momento decisivo, Chayenne non premerà il grilletto contro il suo bersaglio. Ma si prenderà "gioco" di lui. Fotografandolo. Metafora del cinema (che nella lingua inglese condivide con l'azione dello sparara il verbo: to shoot), la cui ultima parola non è - non può essere - la vendetta.
Non sappiamo quanto spirito americano ci sia in questa chiave interpretativa, ma c'è molto del cinema del napoletano. Che ritroviamo diverso, perché maturo. E' il grande pregio, l'importanza, di This Must Be the Place.Tuttavia è come se la poetica del regista - così connotata - non riuscisse a fondersi fino in fondo con il movimento dell'On the road. Come se la sua natura essenzialmente ritmica, musicale, intensiva, soffrisse la linearità narrativa, la gabbia del racconto. E' una sensazione che colpisce soprattutto chi amava il "primo" Sorrentino,  il talento del cinema discorsivo, di stile, di raccordi. Così estraneo a quello americano, fatto invece di racconti, di archetipi, di mappe precise.Le due anime si scontrano, generando un paradosso: un film sul movimento senza vero movimento. Un quadro vivo, prigioniero di una cornice. Bello da vedere, ma leggermente ingolfato. Dentro una metamorfosi che è appena iniziata.