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The Wolfman
La lunga catena di inconvenienti, manomissioni, interruzioni e scomuniche che ha caratterizzato la travagliata gestazione di The Wolfman é ancora lì, indelebilmente impressa sulla pellicola. Registi che andavano e venivano (nel 2007 Mark Romanek si è messo da parte, è arrivato Joe Johnston e non ha portato nessun giovamento), sceneggiature stracciate, ritoccate, riscritte, accomodate secondo la luna del momento, produttori impacciati, star ingombranti, test impietosi, paletti, pasticci e pastrocchi, comunemente accettati e difficilmente accertabili. Eppure la prova c'é: il film.
Scriteriatamente accostato al capolavoro del '41 (L'Uomo lupo di Waggner, interpretato dal grande Lon Chaney Jr.), il monster-movie di oggi non è un remake - se ne discosta nella trama, ne è incommensurabilmente lontano stando ai risultati - ma potrebbe figurare al massimo come parente alla lontana, non gradito.
Era nell'aria. Plot farraginoso come da progetto, dove tutto va nella direzione in cui ci si aspetta che vada, senza spostare cuore e ragione di una virgola: il primo non c'è mai stato forse, la seconda si è persa cammin facendo. Chi si aspettava un aggiornamento del mito, non si ritrova nemmeno con l'edizione in brossura, tanto l'approccio è vecchio (riassumibile in pochi punti-chiave: la mostruosità è generata dall'ignoranza e dalla superstizione, le colpe dei padri ricadono sui figli, l'amore può tutto ma a volte è meglio una pallottola in fronte) e il decalco rappezzato. Troppo tempo per rimediare i pezzi, troppo poco per metterli insieme. Così al posto di un film, ne abbiamo (almeno) tre - il ritorno di Lawrence Talbot nella casa natìa più mutazione/Qualcuno volò sulla tana del lupo, ovvero quando l'horror va al manicomio/La bella e la bestia - scarsamente assimilabili l'uno con l'altro, e ciascuno goffo a suo modo. Sulla carta l'armamentario gotico e tardo-ottocentesco c'era tutto: magione decadente, scalini scricchiolanti, porte chiuse, boschi come abissi, ululati, donne su cavalli bianchi, donne dei ritratti, zingari e gretti personaggi da villaggio, ma dall'infusione per immagini ne esce un baraccone di cartapesta, dove i lupi mannari somigliano a pupazzoni pelosi, la luna a uno yoyo e le belle donne a pallide maschere di cera.
Non sono le singole tessere del mosaico a difettare - basterebbe citare i credits: Milena Canonero (costumi), Rick Baker (trucco) e Danny Elfman (musiche) - ma il loro intreccio: il tutto gioca contro le sue parti, come se mancassero mani e bacchetta capaci di armonizzare le singole voci, ammassate l'una sull'altra in una sommatoria cacofonica.
Nel nome di cosa? Di un'estetica fumettona e compulsiva, abbacinata dai colori pastello dei fondali - degni di una scena teatrale - compiaciuta della pomposità dei dialoghi e dello splatter telefonato, trincerata dietro formule drammaturgiche da usato sicuro e star di grosso calibro - Anthony Hopkins, Emily Blunt e naturalmente l'uomo lupo Benicio Del Toro. Quest'ultimo, anche produttore, sembra il più spaesato, e non solo per esigenze di copione (è lo straniero che la piccola comunita non può assimilare, perciò deve demonizzare e togliere di mezzo). Irriconoscibile. La licantropia deve essere davvero un disturbo, come ha ammesso l'attore. Peccato che il film non ne costituisca la cura. E che a lui e al resto del cast spetti solo l'augurio di una pronta e completa guarigione.