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The Wolf of Wall Street
Scordatevi Gekko, scordatevi l' impomatata borghesia della finanza, scordatevi Stone. Attenti al Lupo. A Belfort e al suo accrocco bestiale di leoni rampanti e scimmie ubbidienti . Questa è storia (1987-1997): con nomi e cognomi. Questo è The Wolf of Wall Street.
Agile, illuminante, pantagruelico vademecum di come va il mondo laggiù, tra manipolatori di titoli e sciacalli, prostitute e prestanome, corruttori e corrotti. Sodoma e Gomorra insieme, la Borsa, l'America, il “fugazi” transazionale, il Nulla a sei zeri che si fa e si distrugge (copyright Matthew McCounaghey). Di Caprio & Co., la melma socio-culturale del nostro pimpante e radioso Occidente. La feccia, sottoproletariato spregiudicato e arraffone che anticipò, ispirò, Lehman Brothers e mutui subprime. La costola scoperta del capitalismo.
Come sono semplici le cose: quotazioni, spread, derivati e commissioni vengono ridotti a QI basico: banalissima illegalità. Non sorprende il primato, il più alto numero di “fuck” (567) mai pronunciati: questo film è tutto un “fottere” - fotti o sarai fottuto! - c'è altro sotto la bandiera che gagliarda sventola polvere di stelle e strisce di coca? A sentire Belfort, il Robin Hood che rubava per se stesso, non può, e anche se ci fosse lo si vorrebbe davvero?
Venuto dal niente, miliardario a 26 anni, in rovina a 36, Belfort è l'eroe senza mantello di ogni pastorale americana, un riuscito prodotto sociale. Forse eccentrico, chiassoso, drogato - la “dipendenza” è il motore di una cultura disperatamente legata al circolo della domanda e dell'offerta, del bisogno e della soddisfazione - però americano fatto e finito. Busta paga a parte, nessuna differenza con l'affabile agente Fbi che sogna come lui, rosica e cerca di “fregarlo”.
America, paese di frustrati e di furbi , dove ciò che conta non è quel che sei, ma come (non cosa) vendi. Volete capire un po' della seduzione e del ribrezzo per questo paese? Vedete The Wolf of Wall Street, o delle sottigliezze della morale. Un baccanale tramortente, una parabola di ascese gloriose e fetide cadute, mai vista così debordante, esagerata, degenerata e, sì, empatica. Difficile separarsene, disintossicarsi.
Scorsese strappa via tutte le foglie di fico del Capitale, ci costringe a guardarlo per quello che è, frutto proibito dall'albero del male: chi non vorrebbe mangiarne? Non condanna, non assolve, non rinuncia alla pietas. Belfort – probabilmente il the best of Di Caprio – è uno di noi, anzi è uno che tanti di noi avrebbero voluto essere.
Dopo tre ore di sniffate, orge e risate, ritroviamo il lupo ancora in sella mentre cerca di insegnare a un popolo di sfigati come si fa a vendere una penna. La stessa che ha venduto a noi perché scrivessimo in calce un'unica parola: capolavoro.