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The Warrior - The Iron Claw
La vicenda della famiglia Von Erich, protagonista di The Warrior – The Iron Claw, è la tipica storia americana.
Il racconto di un clan di sangue pervicacemente coeso, sottomesso all’autorità morale di un capo indiscutibile. La storia di un’ossessione per il successo, sul cui altare si può, anzi si deve, sacrificare ogni cosa. Una storia di fratelli inseparabili ma anche di figli lacerati, divorati dai padri. Una vicenda di sport e, dunque, un’allegoria di altre sfide, lotte, vittorie e sconfitte. In definitiva una tragedia dagli echi biblici. Una pastorale americana.
Lo sport è il wrestling, potente effige della cultura americana, al pari del baseball, del football e della boxe. Tutte discipline che sono anche diventate potenti parabole cinematografiche. Ma il wrestling ha qualche affinità in più con Hollywood, ne sostiene da tempo le strategie commerciali, attraverso collaudate sinergie produttive (la WWE, la lega professionistica del wrestling americano, è anche una società cinematografica) e il travaso di star dal ring al set (The Rock, John Cena, Dave Bautista, provengono tutti da lì). Il wrestling non è nemmeno uno sport, ma uno show a tutti gli effetti che condivide con quello cinematografico principi, regole e finalità, con tanto di copione, polarità narrative (lo schema non ammette sfumature: buoni vs. cattivi), tecniche di sospensione dell’incredulità. Persino il linguaggio, da quando il wrestling è appetito dai palinsesti televisivi, rivela contaminazioni interessanti.
Questa dimensione performativa, finzionale, del wrestling è ben presente nel lavoro di Sean Durkin. Nel prologo in bianco e nero, ambientato negli anni Sessanta, Fritz Von Erich (Holt McCallany), un lottatore trucido inventore della mossa che dà il titolo al film - l’artiglio di ferro - decide di svenarsi per noleggiare una Cadillac, spiegando alla moglie Doris (Maura Tierney) che per raggiungere il successo bisogna proiettare di sé un’immagine vincente. Più tardi - siamo già negli anni Ottanta, il film nel frattempo è diventato a colori – sarà Mike (Stanley Simons), il minore dei quattro figli di Fritz e l’unico non smanioso di cimentarsi con il ring e assecondare la patologica ossessione paterna, a sottolineare la crescente godibilità del wrestling per gli spettatori, grazie a nuove inquadrature (split screen, angoli insoliti) sperimentate dalla televisione.
E mentre passiamo in rassegna combattimenti ben coreografati e del tutto costruiti – i contendenti si mettono d’accordo prima su chi debba vincere, con quali mosse e in quale momento dell’incontro - ecco che Kevin (Zac Efron), il maggiore dei Von Erich, l’erede designato di Fritz per vincere l’agognato titolo di campione mondiale della disciplina, spiegare alla futura moglie Pam (Lily James) che cosa sia in effetti l’agonismo nel wrestling (e dunque il merito), chiarendo che questo sport non è falso, ma solo “preordinato”. E allora i suoi adepti sono atleti della messa in scena, performer la cui abilità viene misurata con il metro utilizzato nel campo delle arti e dello spettacolo piuttosto che in quello sportivo.
Sean Durkin, da devoto del wrestling, non affonda il colpo e pur mostrandone i trucchi del backstage non arriva mai a giudicarlo come posticcio. Mostra un’indecisione che si riverbera però sull’intero film fino a diventarne il tono. Che solo in parte ha a che fare con quella “malinconia repressa” di cui parla Richard Brody sul New Yorker. È anche un vorrei ma non posso, prudente nel non urtare i membri della famiglia Von Erich ancora in vita e puntualmente omaggiati sui titoli di coda del film.
Il tema dell’inganno non è l’unico filo nascosto della sceneggiatura. Vicino, per affinità semantica, il leit-motiv della promessa tradita. Il film è esplicito nel ricercare una matrice altra, biblica, al dramma familiare e sportivo che sta rappresentando. Giocando sull’accostamento tra predeterminazione (del wrestling) e predestinazione (degli sfortunati protagonisti): intorno ai Von Erich gira voce di una maledizione antica (risalirebbe alla nonna), rafforzata da quando il primogenito di Fritz e Doris muore annegato all’età di 6 anni. Accadimento fuoricampo, a ribadire il carattere ineffabile di una malasorte che di lì in poi si abbatterà anche sugli altri fratelli. A questo destino infausto, castigo imperscrutabile di un Dio ostile, ci si può sottrarre però. Il “come” lo ingiunge l’altro dio della storia, il pater familias Fritz, appellato dai figli signor sì, signore: farsi a sua immagine e somiglianza perseguendo ostinatamente, ossessivamente, la vittoria sul ring. Indurirsi nei muscoli e nell’anima sostituendo “a un cuore di carne un cuore di pietra”.
Questo patto di fiducia totale, fondato sull’autorità quasi divina del padre, è la vera tragedia che colpirà la famiglia. La liberazione promessa si rivelerà la bugia che incatenerà i figli a un destino di inutile vittima sacrificale. Echeggiando e smentendo la Fede veterotestamentaria (“Non violerò il mio patto e non muterò quanto ho promesso”, recita il salmista), Durkin mostra l’altra faccia del sogno americano, l’impasto eretico di fanatismo e megalomania, affari e violenza. Plasticamente, nella casa dei Von Erich, accostando armi e crocifisso.
Bibbia e pistole. Il nocciolo del conservatorismo tecon incontra nell’America rurale (siamo in Texas) l’industria della lotta e della sua ideologia, il wrestling. Rispetto al martirio mistico di The Wrestler di Aronofsky, il film di Sean Durkin ha una venatura più politica, è un atto d’accusa ai padri di una nazione (in Italia li chiameremmo cattivi maestri) che continua a mandare al martirio i propri figli con promesse d’invincibilità.
Se The Iron Claw, in scia con i precedenti di Durkin La fuga di Martha e The Nest, è un’altra storia di autorità crudele, ingannevole e distruttiva, gli manca però quel guizzo per andare oltre il copione. Un film classicheggiante, quasi retrò, reso con pigro naturalismo dall’ungherese Mátyás Erdély (direttore della fotografia de Il figlio di Saul), che si esalta semmai nell’illuminare lo spazio ristretto del ring. Un’opera un po’ inerte, che affida alle vibrazioni emotive dei suoi attori – bravi tutti, va detto: da Zac Efron nel ruolo del maggiore Kevin, all’intenso Jeremy Allen White, l’attore di The Bear, nei panni del fratello Kerry. Ma a imporsi è il Fritz sinistro di McCallany – l’incombenza di una risonanza che vada oltre la scrittura. Comunque non è poco.