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Tutto quello che si chiede a un doc di guerra: testimoniare, rivelare, riflettere sulla contaminazione della realtà operata dal cinema.
The War Show (film d'apertura delle Giornate) racconta con una frontalità assoluta, a tratti insostenibile la fine della grande speranza. Lo scacco matto, mortale, rifilato a un gruppo di giovani attivisti siriani - regista compresa, la coraggiosissima Obaidah Zytoon, che sfila senza velo e non indietregga nemmeno davanti ai fanatici dell'ISIS - che sognavano una nuova primavera per il loro paese, per le loro vite, libera dal regime, libera e basta.
Sette capitoli per scandire l'incendere inesorabile del destino baro, il disfacimento di una rivoluzione, lo smarrimento dei suoi protagonisti, la desertificazione di spazi, città, solidarietà umane.
Zytoon e, in seconda battuta, il danese Andreas Dalsgaard, ci sbattono in faccia l'inferno siriano per quello che è, un cumulo di macerie, menzogne, cinismo, cadaveri. Fino alle bandiere nere che si vedono all'orizzonte, l'Isis che arriva, paradossale approdo di una rivolta rivoltata, che ha cambiato padroni.
Ma The War Show non è solo reportage potente, di prima mano, interno. E' anche riflessione sul processo di virtualizzazione di ogni cosa, guerra compresa, morte compresa. Una riflessione sulla deriva predatoria dell'immaginario sulla realtà con tutti gli effetti allucinatori e nefasti del caso. Dunque una riflessione sul documentario come forma stessa di restituzione e di interpretazione del mondo. Un altro modo per dirsi impotenti. Operazione disperata ma dal rigore morale indiscutibile.