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The Turin Horse
Il titolo prende spunto da un fatto vero: quando nell'inverno del 1889, a Torino, la malattia di Friederich Nietzsche si palesò sotto gli occhi di tutti. Di fronte a un cocchiere che maltrattava il cavallo, il filosofo non riuscì a resistere e abbracciando la povera bestia, scoppiò in singhiozzi. La storia dell'ungherese Bela Tarr, in concorso al festival di Berlino, incomincia proprio qui, dalle vicende dello sventurato cavallo, del suo padrone e della figlia che lo aspetta in una casa in mezzo al nulla. Un lungo piano sequenza in bianco e nero ci introduce nel primo degli interminabili sei giorni (il film dura due ore e mezza), che aspettano lo spettatore. Il cavallo e l'uomo viaggiano in mezzo a una tempesta, che gli impedisce quasi di proseguire. Quando arrivano nella casetta di pietra, entrambi sfiniti, il vento fortissimo non è cessato, né cesserà nei giorni a seguire. Il vecchio contadino ha una figlia, che misera come lui, lo accudisce senza parlare. Cuoce le patate e preleva acqua dal pozzo. Nessuno capita in quella landa desolata, fatta eccezione per un visitatore occasionale e un gruppetto di zingari che vengono subito cacciati, dopo aver bevuto e festeggiato (profanato?) la scoperta del pozzo. Prima di andarsene uno di loro regala un libro alla ragazza, che parla di sciagure e penitenze ("Le mattine diventeranno notti per quelli che hanno osato violare i luoghi sacri..."). Lentamente la profezia si avvera, l'acqua sparisce all'improvviso, e il buio prende il sopravvento. Il sesto giorno non c'è più nulla. Dialoghi inesistenti, luoghi aspri e selvaggi, facce che contengono tutta la disperazione del mondo (il primo piano del muso del cavallo che sa di essere prossimo alla morte). Una riflessione estrema che rimanda alla visione apocalittica e nichilista del suo capolavoro Satantango (7 ore, presentato a Berlino nel '94), sull'immanenza del male e l'insensatezza dell'universo. Dopo il meno convincente L'uomo di Londra, a Cannes nel 2007, un nuovo grande film, splendidamente fotografato e interpretato (Janos Derzsi, Erika Bok), sulla mancanza di compassione (e salvezza) del genere umano.