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La parola è una chiave, ma il silenzio è un grimaldello. Prendiamo in prestito “le parole” di Gesualdo Bufalino perché ci aiutano a capire meglio quale intenzione sia sottesa a un’operazione stramba e straordinaria come The Tribe. Non un film sui non udenti, come qualcuno ha sostenuto prendendo alla lettera il côte (un istituto per sordomuti in Ucraina), e nemmeno un film muto – preciso, prezioso semmai il lavoro sul sonoro – ma uno che rifiuta la parola. Meglio, la nega. Non vale il preteso rispetto per l’oggetto del discorso – il sordomuto e la lingua dei segni – a giustificare la scelta del regista ucraino Myroslav Slaboshpytskiy di non utilizzare sottotitoli esplicativi. E’ un atto deliberato, politico, non a favore di ma contro. E in effetti, a chi nega la parola Slaboshpytskiy se non allo spettatore? E che audace ribaltamento è mai questo, di un mondo che sovverte le gerarchie consolidate e improvvisamente taglia fuori i padroni della lingua dal sistema (di comunicazione) dominante, ponendoli in una posizione di svantaggio?
Una mossa – quella della sottrazione della parola – che fa il paio con quell’altra, la sparizione del primo piano. Slaboshpytskiy elimina così i due classici tutori del vedere. Lavora solo su campi lunghi, campi medi, piani sequenza e carrellate a distanza di sicurezza. Guarda e ci fa guardare come da un oblò, de-territorializzando le immagini e costringendo più volte lo spettatore a sperimentare una libertà, dunque una responsabilità, di visione totale. Bullismo, prostituzione, emarginazione e sogni di fuga di un gruppo di giovanissimi non udenti ucraini – come in una sorta di Arancia meccanica sordomuta – sono il perfetto contraltare tematico di quest’esperienza caotica, violenta e generativa che è la formazione ex novo del pubblico, cui il regista ri-affida il potere di nominare le immagini e deciderne senso e destino (e addirittura la possibilità di scegliere tra due finali).
Un disegno radicale, che rivela una coscienza estetica e morale inimmaginabile per un esordiente. Lo sguardo etologico, l’uso consapevole degli elementi minimi del linguaggio cinematografico – il gesto, l’inquadratura, l’angolo, la luce – e l’approccio squisitamente teorico non fanno però di The Tribe un film gelido e respingente. Il fascino di questo lavoro è proprio nel sottile e misterioso meccanismo emozionale che attiva, nell’enigma inscritto nella visione, nella sfrontata nudità con cui abbraccia senza compromessi primigeni impulsi di vita. Fondamentale l’adesione al progetto degli attori, tutti non professionisti. Vincitore del Gran Premio del Semaine de la critique e di molti altri premi internazionali, The Tribe è destinato a echeggiare a lungo nella memoria, nonostante tutti i suoi silenzi o forse proprio a motivo di questi.