Fair is foul, and foul is fair”.

Per la sua prima regia in solitaria, senza il consueto apporto del fratello Ethan, Joel Coen tenta la strada dell’ennesima trasposizione cinematografica della celeberrima tragedia shakespeariana.

Non sposta di un millimetro il cuore letterario e teatrale che ne anima la portata, ma inghiotte nel formato 1:33 e nelle nebbie di un risucchiante e accecante bianco e nero – curato in maniera impeccabile dal direttore della fotografia Bruno Delbonnel – i monologhi, i dialoghi e le vicende che porteranno il nobile scozzese e valoroso uomo militare alla corruzione del proprio animo, spinto sempre di più dalla bramosia del potere che lo condurrà alla follia.

Denzel Washington – candidato come migliore attore ai Golden Globes e ai Critics’ Choice Awards – è un Macbeth portentoso, capace di offrire una prova mesmerizzante, spaventoso nella progressiva trasformazione che parte dapprima dall’incontro con le tre streghe che profetizzano il suo avvenire regale e si concretizza con forza con lo sprone omicida inculcatogli dalla consorte, Lady Macbeth, interpretata da Frances McDormand (qui all'ottavo film diretta dal marito).

Presentato allo scorso New York Film Festival, The Tragedy of Macbeth ripercorre dunque fedelmente le tappe dell’opera di Shakespeare, suddividendole in quadri angoscianti, in un continuo rimando al soprannaturale (spaventosa la performance mutaforma di Kathryn Hunter, nei panni delle streghe) e all’onirico – non manca naturalmente l’episodio di sonnambulismo di Lady Macbeth, impresso anche da Johann Heinrich Füssli su tela nel 1784 (ed esposto al Louvre) –, rimanendo costantemente sospeso nella gabbia espressiva di un incubo mortifero dal quale è impossibile fuggire.

Le luci di Delbonnel, l’apparato scenografico di Stefan Dechant (tutto il film è stato realizzato in un teatro di posa di Los Angeles) e le musiche stranianti di Carter Burwell (compositore che accompagna la produzione dei fratelli Coen sin dal loro esordio, 1984, Blood Simple) amplificano tali suggestioni, esaltando senza fiaccarne la portata gli innumerevoli legami – non solamente ambientali ­– con il cinema trascendente di Dreyer e quello dell’espressionismo tedesco (l’Aurora di Murnau, ad esempio), senza dimenticare naturalmente l’influenza diretta del Macbeth wellesiano, girato nel ’48 con un budget irrisorio e, anche allora, “ricostruito” per intero dentro un teatro di posa.

L’affinità teorica e filosofica con l’opera di Welles trova inoltre una sorta di elongazione “fisica” con la scelta di affidare a due interpreti più agée (rispetto ai canonici personaggi) il senso, anche visivo e sofferto, della decadenza del tiranno.

Macbeth e la moglie sono già “oltre”, e l’uccisione del re Duncan (Brendan Gleeson) – inizio di una spirale non più arrestabile – viene percepita come l’occasione finale arrivata sul finire di un’esistenza che non ha più margini per gloriose affermazioni.

Joel Coen sul set del film
Joel Coen sul set del film
Joel Coen sul set del film
Joel Coen sul set del film

 

Visione non semplice, totalmente svuotata della consueta sagace ironia caratterizzante la filmografia di matrice coeniana, The Tragedy of Macbeth rischia la deriva intellettualoide del prodotto fieramente arthouse, ma alla lunga riesce ad aggirare il pericolo: è un film che resta, che cresce anche dopo la fruizione, annidandosi nei meandri oscuri della memoria.