Nel titolo c’è lo spazio, la costa orientale degli Stati Uniti da attraversare e scoprire, il romanzo di formazione che si fa inevitabilmente racconto picaresco; e c’è lo spirito, la dolcezza del vivere, con la frantumazione felliniana tra le righe (più degli snodi sono gli incontri a costituire la narrazione) e il filtro indie a indicarci gli orizzonti.

Apparentemente, The Sweet East, che segna il debutto alla regia di Sean Price Williams (autore della fotografia per i fratelli Safdie e soprattutto Alex Ross Perry, qui produttore), sembra piombare dall’universo psichedelico di fine anni Sessanta, quasi fosse un aggiornamento di Candy e il suo pazzo mondo con un approccio più malinconico che sovversivo, una cover anzi un surrogato de Le margheritine senza il coraggio surrealista e politico di Věra Chytilová.

A guardarlo meglio, questo esordio è la variante del tipico ritratto di un’adolescente americana che circumnaviga gli eventi limitandosi a toccarne la superficie senza guardare davvero nel fondo delle cose. Lillian, infatti, è una studentessa all’ultimo anno delle superiori (Talia Ryder), che si separa dalla classe in gita e si lancia in un’avventura che la rende una specie di Alice tra le macerie del paese delle meraviglie (la terra dell’abbondanza è un ricordo nostalgico appaltato ai fanatici della purezza).

Corpo in fieri, oggetto del desiderio collettivo ancorché proibito non fosse altro per l’anagrafe, Lilian si perde senza mai disperdersi: a Washington entra in contatto con un attivista anarchico e seduce e abbandona un docente universitario di simpatie neonaziste (Simon Rex, migliore in campo nel suo muoversi tra idee spaventose e disperato romanticismo, con un ultimo sguardo che spezza il cuore); a New York folgora una regista pretenziosa e un produttore esagitato che vedono lei la protagonista del film che stanno preparando (Ayo Edebiri e Jeremy O. Harris), poi flirta con la star che l’affianca sul set (Jacob Elordi, praticamente se stesso) e s’imbatte in uno skinhead pronto allo stragismo; quindi si rifugia in una fratellanza islamica nel Vermont, infine si ritrova in un monastero. E intanto il tempo passa e le cose cambiano.

The Sweet East
The Sweet East

The Sweet East

Scritto da Nick Pinkerton, The Sweet East, benché stravagante (a volte programmaticamente) e non di rado curioso (a corrente alterna), sembra più sconclusionato che affascinato dalla possibilità dello spaesamento (interno e del pubblico), più concentrato sull’accumulo di eccentricità che sulla compattezza per via antologica. La visione è accattivante anche nei suoi slanci meno efficaci, la satira dell’America al crocevia della disperazione fa il suo lavoro pur in modo a tratti scolastico, i personaggi sopperiscono al pericolo della bidimensionalità grazie al carisma degli interpreti.

Vivace ed eccentrico, d’accordo, però l’eccessivo ripiegarsi nelle digressioni sconfina nel compiacimento, il focus sulle comunità è più piatto rispetto al disegno dei singoli, il rischio che tutto si riduca al trollaggio resta più che un sospetto.