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The Surfer
The Surfer è tra le cose più divertenti di questa Cannes 77, piazzata giustamente fuori concorso. Prodotto e interpretato da Nicolas Cage e diretto dal talentuoso Lorcan Finnegan è un omaggio ai b-movie degli anni settanta, già a partire dal lettering dei titoli di testa, una sorta di Aachen Bold giallo su fondo pastello. Siamo in Australia, in uno dei tanto suggestivi “cliff” che si affacciano sul mare azzurro. Il surfista senza nome interpretato da Nicolas Cage vi ha fatto ritorno per riacquistare la casa sulla scogliera dove è cresciuto da bambino conoscendo la felicità. Vi vorrebbe portare il figlio adolescente (che sembra invero contrariato) e la moglie (che vuole il divorzio per potersi risposare). Ma tra agenti immobiliari che giocano al rialzo e una gang di surfisti locali a dir poco ostili, l’impresa sarà l’equivalente di una fatica di Sisifo.
L’arpa e il triangolo fanno da contrappunto sonoro al succedersi di angherie e violenze perpetrate ai danni del nostro uomo, in una spirale di umiliante degradazione che trasformerà un pacifico uomo d’affari in un soggetto instabile e assetato di vendetta. A poco a poco, in una progressione implacabile, Il surfista perderà tutto (prima di ritrovare se stesso?): la bussola (l’orologio lasciatogli dal padre), la vista (gli occhiali da sole che cede a un vecchio disperato in cerca di giustizia), la parola (il cellulare) e la mobilità (l’auto). Infine la dignità, quando sarà costretto, sporco, stanco e disidratato, a bere da una pozzanghera e a rifornirsi dalle pattumiere e…da malcapitati roditori.
Il parossismo delle situazioni costruite dallo sceneggiatore Thomas Martin e dal regista raggiunge picchi di ilarità, disperazione e disgusto a tratti irresistibili. Finnegan giostra tutto con maestria, utilizzando ogni espediente possibile in un raggio d’azione estremamente limitato, che comprende un lembo di spiaggia, il mare, i roveti, una cabina telefonica e un bagno pubblico. Utilizza le assurde espressioni degli invertebrati territoriali, alcuni mai visti. E impone a un generoso Nicola Cage un tour de force incredibile, tanto dal punto di vista fisico che nelle smorfie facciali.
Il suo alter-ego, Scally (Julian Macmahon), è una specie di surfista santone che capeggia un gruppo di bifolchi: una vera e propria setta dedita al surf, alle droghe e alle prediche che scimmiottano slogan di mortificazione fisica e paroloni da illuminazione new-age. Il mantra? Suffering and surfing.
Il religioso uscito dalla finestra rientra con la tavola da surf: anche qui si avverte l’interesse parodistico per il ritorno alla credenza e ai messia, al bisogno di ordine e di comunità. Del resto il motore di The Surfer è l’ossessione dai tratti religiosi del protagonista: tornare a uno stato edenico, sottoponendosi a una serie di prove di purificazione che lo faranno rinascere (con tanto di battesimo) a vita nuova.
Quando tutti si aspettano il compiersi del revenge-movie – il tema dell’uomo angariato che reagisce con violenza palingenetica – il film va da un’altra parte, in un ribaltamento geniale che rafforza il versante satirico dell’operazione. Peccato che a questo finale Martin e Finnegan ne abbiano preferito uno ulteriore, più convenzionale e inopinatamente moralistico. Diversamente sarebbe stato un b-movie perfetto.