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The Substance
Eccolo, il nuovo Titane. Per qualche concordanza poetico-stilistica può essere accostato alla Palma d’Oro, invereconda, di Julia Ducournau, ma non c’è paragone: è meglio, di gran lunga.
Rispondendo per immagini e suoni, Zeitgeist e autorialità, derivazione (dal Ritratto di Dorian Gray a Frankenstein, da Mulholland Drive a Eva contro Eva, quanta e tanta roba) e genere, body-horror e empowerment femminile alla domanda “Hai mai sognato una versione migliore di te stesso?”, la francese Coralie Fargeat realizza la sua opera seconda negli Usa e trova la competizione di Cannes 77: è The Substance, targato Working Title e Universal, anche se - per darvi un’idea – si direbbe A24.
The Substance, La Sostanza, si inietta in vena e cambia la vita, offrendo una versione migliore di sé: più giovane, più bello, più perfetto. Si deve solo condividere il tempo con l’alter ego: una settimana per l’uno, una settimana per l'altro, equilibrio da mantenere, pena…
Sicché "Tu, ma meglio in ogni senso”, il prodotto rivoluzionario basato sulla divisione cellulare fa al caso di Elizabeth Sparkle (Demi Moore, indomita), già stella cinematografica certificata sulla Walk of Fame e ora stellina di fitness televisivo à la Jane Fonda 2.0 che sta per essere rottamata dall’orrido capo del broadcaster Harvey (Dennis Quaid), che incarna lo sguardo maschile e sessualizzante: lo sdoppiamento catalizzerà l'epifania di Sue (Margaret Qualley, già in Kinds of Kindness di Yorgos Lanthimos), che è appunto più giovane, più bella e... più determinata.
Parigina, classe 1976, Fargeat pare tornare su un tema che aveva esplorato nel cortometraggio Reality+ (2013), laddove un chip impiantato nel cervello permetteva di vedersi e essere visto quale modello, mentre sangue e gore certamente provengono da Revenge, il suo primo, truculento lungometraggio, in cui una ragazza stuprata e abbandonata nel deserto ritornava assetata di vendetta.
The Substance è girato da Dio, ma un Dio minore: la regola è Instagram, reel e, ehm, impiattamenti di uova e derive culinarie, la regola è TikTok con balletti e sculettamenti, mentre l'appalesarsi della sostanza è unboxing in purezza. Insomma, la regia è avvertita, persino, condotta dallo stato dell'arte social, ma se il debito è sensibile l'occorrenza è consustanziale alla poetica, anzi, all'ideologia del film stesso che vuole intenzionalmente riflettere sulla società dell'immagine, dello spettacolo e della spettacolarizzazione qui e ora, e chi meglio dell'agorà virtuale l'affina e l'implementa?
"Le belle ragazze devono sempre sorridere", predica Harvey, ed ecco la Venere Sue, più giovane, bella e performante, creata per eterodossa partogenesi a immagine e somiglianza di quanto la società e la stessa Elisabeth richiedano, ma... quanto potrà durare, quanto le convergenze parallele di Elizabeth e della sua ri-creatura potranno tenere, fin quando la guerra intestina non scoppierà?
La concorrenza è incipiente, lo spurio Giano bifronte trasfigurerà infine nel Monstro Elizasue, ma prima per ogni pixel di bellezza guadagnato da Sue ci sarà un effetto uguale e contrario, senescenza e inabilità, sul corpo e sulla psiche di Elizabeth, o davvero pensavate che a invecchiare fosse solo il ritratto di Dorian Gray? E dunque quanto la nostra ambizione, la nostra volontà di potenza che oggi è sempre più volontà di persistenza per immagine e nell'immaginario forzerà la nostra identità, annichilirà la nostra stessa esistenza, concretandosi in un alter ego omicida e de facto suicida?
Fargeat ha qualche buona idea, segnatamente derivativa ma non di risulta, e più di qualche buona immagine per renderla, forte di un appiglio saldo, impietoso e sanguinoso al genere - quanto piacerebbe, e piacerà al rivale per la Palma David Cronenberg questo film? - horror, e segnatamente il body, e di un invasivo e lucido carotaggio nello showbiz ed estensioni social con la scelta sintomatica e perfetta di Demi Moore quale anti-eroina, auto-costretta a partorire e alimentare dalla propria colonna vertebrale il simulacro di sé stessa, la copia di un originale mai esistito o comunque troppo vecchio per rientrare ancora nei parametri del consumo massmediale globale.
Non è un film per tutti, ma a più di qualcuno potrà dire molto: si può non esserne esaltati, e siamo nel novero, ma non negarne la grandezza, la definizione, che è poi quantità spacciata per qualità.
Qui più che Titane siamo dalle parti, rivedute e scorrette, di Crono, ed è interessante che la rottura del patto, i sette giorni di questa ri-creazione, abbiano a che fare con il tempo - e assai poco con lo spazio il film stesso.
Moore si esibisce nuda e cruda e protesica, buona per un premio, mentre Qualley dice che il futuro è suo, al di là del ruolo.
E mentre Cronenberg trova Lynch, e chissà una Elephant Woman, frigge come uova l'osservazione detonata al casting: "Dovrebbe avere al centro della faccia le tette". Già, e se venissimo accontentati?
PS: ma l'inteso, quantomeno proclamato femminismo, ce lo siamo perso noi, l'ha emendato Fargeat o sta forse nel Monstro pioggia di sangue?