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Seth Rogen in The Studio - Courtesy of Apple
Parlare della produzione cinematografica, per Hollywood, è spesso significato parlare anche dello stato della nazione: raccontare come si producono i film e come si cerca di conquistare il pubblico attraverso “l’arte” è un mezzo per riflettere su politica e società statunitensi, partendo da Gli ultimi fuochi per arrivare a Il bruto e la bella o Babylon o, in ambito televisivo, Entourage.
Farlo oggi, nel bel mezzo di epocali cambiamenti economici e politici, nell’era dello streaming e della reazione dei cinema, nel momento storico in cui stanno sorgendo nuove e potenti case di produzione “indipendenti” che stanno rapidamente facendo le scarpe alle major, può significare dare uno sguardo anche agli USA di Trump e Musk, dell’iper-liberismo finanziario, delle criptocrazie.
Forse non è l’obiettivo primario di The Studio, la serie creata, gestita e diretta da Seth Rogen ed Evan Goldberg (assieme a Peter Huyck, Alex Gregory, e Frida Perez) per Apple Tv+, ma è probabile che parodiando i nuovi sistemi produttivi del cinema a stelle e strisce, i due discoli della commedia USA – attivi soprattutto al cinema con commedie irriverenti, sboccate e provocatorie, ma non di rado inventive come Superbad, Facciamola finita e Sausage Party – volessero provare a smontare dall’interno alcuni dei meccanismi comunicativi che regolano la vita degli States.


Protagonista della serie è Matt Remick (interpretato dallo stesso Rogen), un produttore che viene nominato a capo dei Continental Studios, una casa di produzione cinematografica che ha saputo coniugare successi di pubblico e film molto amati dalla critica e vicino al gusto dell’Academy, una realtà che potrebbe essere accostabile alla A24 o alla Neon, che agli ultimi Oscar ha trionfato con Anora.
Matt è un entusiasta cinefilo e vede il suo lavoro non come farebbe un qualunque executive da major, non è interessato esclusivamente al ritorno economico e finanziario della questione, ma vuole dare ai film che segue un approccio creativo: solo che è anche un pasticcione senza speranza e questo causerà più guai che successi.
In ogni puntata (dieci quelle della prima stagione), seguendo un filo verticale che ben si adatta al formato comedy, Matt deve risolvere un problema causandone un altro più grosso che dovrà risolvere causandone un altro e via fine allo sfacelo. Il filo rosso che lega gli episodi, anche se non si può definire come una vera e propria linea orizzontale del racconto, è il tentativo di Matt di realizzare un grosso campione d’incassi, capace di sfondare il miliardo di dollari, o un trionfo all’Academy – che per gli studios sono ancora un obiettivo cruciale, checché possano pensarne i cinefili – senza sacrificare nulla alla qualità.


Olivia Wilde e Seth Rogen in The Studio - Courtesy of Apple
Per esempio, nella prima puntata lo studio deve realizzare un film a partire dal pupazzo del Kool Aid Man, la mascotte di un succo di frutta, per bissare il successo di Barbie: al progetto pare interessato Martin Scorsese, con grande euforia dello studio, ma il regista propone un film sul massacro di Jonestown, il più grande suicidio di massa della storia umana, in cui far apparire il marchio dei succhi durante il suicidio e mediare tra il progetto artistico e la fattibilità produttiva sarà una missione impossibile.
Se non quello satirico a livello politico, Rogen, Goldberg e soci hanno sicuramente l’obiettivo di mettere in scena con assoluta credibilità il loro affresco, girando dentro i veri set e i veri luoghi di Hollywood, le cittadelle con i set ricreati per i film in costume, come nel quarto episodio, quando viene usata una Chinatown immaginaria ricostruita in dettaglio per ambientarci una sorta di versione personale del noir d’epoca, proprio come fece Polanski in Chinatown, per recuperare un rullo mancante da un film girato da Olivia Wilde; come intuibile, un altro elemento che dà vita e realismo a The Studio, è la presenza di decine di apparizioni, cameo, ma anche ruoli comici veri e propri di grandi personalità hollywoodiane, nel ruolo di loro stesse.
Oltre i già citati Scorsese (strepitoso) e Wilde, troviamo Sarah Polley, Ron Howard – nell’episodio forse più divertente della serie, quello in cui deve cercare di suggerire al regista di A Beautiful Mind di tagliare il lunghissimo finale del suo film – poi Bryan Cranston e molti altri.
The Studio non cerca di ricreare l’atmosfera che ruota intorno alla produzione di un film, non è il realismo il suo obiettivo, ma vuole che il pubblico veda quella sullo schermo come la realtà in carne e ossa, filtrata da immagini e immaginari, ma immediatamente riconoscibile tramite volti, facce e nomi, tramite meccanismi che la presenza comica di Rogen e dei suoi compari (il suo braccio destro Ike Barinholtz, la sua assistente Chase Sui Wonders, la sua collega Kathryn Hahn) fanno deflagrare.


Ike Barinholtz, Kathryn Hahn, Chase Sui Wonders e Seth Rogen in The Studio - Courtesy of Apple
Se ci si consente il paragone debitamente contestualizzato, la serie è pressappoco l’incontro tra Curb Your Enthusiasm e Hollywood Party: da una parte ci sono situazioni (relativamente) comuni, costantemente preda di imbarazzi, equivoci, ansie sociali e professionali a cui il protagonista cerca di porre rimedio aggravando la situazione, rilanciando di continuo con la propria inadeguatezza; dall’altra c’è l’amore di Rogen e Goldberg per il cata-comico - come Emanuela Martini battezzò il cinema di John Landis, John Belushi e dei figli del Saturday Night Live – e lo slapstick, che permette di portare le situazioni alle estreme conseguenze comiche, arrivando a momenti spettacolarmente umoristici (il finale del già citato episodio noir) rari in un prodotto per lo streaming o il piccolo schermo.
Non a caso, un’altra delle caratteristiche peculiari della serie Apple Tv+ è la forza produttiva: non si intende banalmente il costo dei singoli episodi, quanto la capacità di trarre il meglio dagli elementi visivi, le immagini e le scenografie su tutti.
Detto fuori dai denti, The Studio è una delle serie in assoluto meglio realizzate degli ultimi anni, girata in modo spettacolare e non per vezzi stilistici ed estetizzanti, ma proprio per una questione espressiva. Rogen e Goldberg, registi di tutti gli episodi di questa prima annata, fanno larghissimo uso del piano sequenza, spesso acrobatico, ma non per assecondare un vezzo tipico della prestige tv, quanto per rendere ancora più vivido e prossimo a chi guarda il ritratto dello show business hollywoodiano, per suggerire l’incapacità di stare fermi, il nervosismo, per sottolinearne la frenesia e irriderla, anche irridendo la moda stessa della tecnica del long shot: se la sequenza con cui si apre The Studio è un bell’omaggio al magnifico piano sequenza di I protagonisti di Robert Altman (che proprio dentro Hollywood è ambientato) e quasi tutte le sequenze sono realizzate con inquadrature lunghissime, per rendere più eccitanti le performance degli interpreti, un intero episodio, il secondo, è tutto realizzato in piano sequenza per raccontare la difficoltà di una regista di realizzare un piano sequenza complicatissimo, specie se Matt si mette involontariamente in mezzo appena può.
Satira bonaria, ma soprattutto omaggio appassionato e (se si ama quel mondo) appassionante alla fabbrica dei sogni, The Studio cerca anche di mostrare un lato che, nei vari film, libri e serie viene messo in secondo piano, o addirittura tralasciato: ossia, l’amore dei produttori per la materia su cui lavorano, il tentativo di fare arte mentre si sta facendo economia, le caratteristiche di una figura molto poco studiata dai critici e che, proprio perché tangenziale alle logiche finanziarie dominanti, può permettersi ragionamenti diversi, fino a un certo punto, da quelli avidi e cinici che associamo a chi i film li produce.
Rogen e Goldberg sono perfettamente dentro il mondo che descrivono e, se la figura di uno studio che venera i registi e di un dirigente che non riesce a contraddirli può inizialmente suscitare qualche perplessità, non siamo affatto in odore di beatificazione o propaganda filo-hollywoodiana, anzi, la durezza della Mecca del Cinema, ma inscritta in una contemporaneità che più attuale non si può: perché la Hollywood che racconta la serie è un ponte tra gli anni ’70 della nuova Hollywood, omaggiati dai titoli di testa, e quella attuale che ha riscoperto (e gli Oscar stanno lì a dimostrarlo) il valore dell’indipendenza, la sua capacità di produrre sogni e profitti, di superare i blockbuster sul loro stesso campo.
Magari è un sogno cinefilo che, proprio come la Nuova Hollywood, durerà il tempo per le major di ristabilirsi, ma se The Studio sarà ricordata come il paradossale manifesto di una Neo-Nuova Hollywood non possiamo che restarne soddisfatti.