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Joel Edgerton in The Stranger
Del noir, sostiene lo storico James Noremore, si può solo dire che “è sempre stato molto più facile riconoscerlo che non definirlo”. È un tono, un’atmosfera, un sentimento del mondo. Un luogo oscuro dell’immaginario.
È in nome di questa evidente, familiare vaghezza che possiamo identificare The Stranger di Thomas M. Wright come noir.
Uno dei film australiani più affascinanti dell’anno, come solo i grandi noir sanno essere. Né classico né post, una strana creatura. Cannes se n’è accorta ma lo ha relegato in Un Certain Regard preferendogli in concorso film e autori più blasonati, non più convincenti.
Ora lo si può recuperare, perché è tra le proposte più interessanti del Torino Film Festival e del listino BIM, che lo porterà in sala a data da destinarsi.
The Stranger prende il noir e, dall’esterno, lo porta all’interno. Dalla metropoli alla psiche. Fa della corruzione un marcire interiore. Della rottura di un patto sociale e di un ordine urbano – la ragion d’essere del noir in epoca classica - il recidere dei legami più intimi e delle connessioni più vitali del soggetto.
L’operazione, a livello concettuale, è tutta qui. Ed è facile accostarla alle vertiginose rimodulazioni psicologiche del genere di un Villeneuve (il riferimento immediato? Enemies, altro grande film da riscoprire).
È però l’impianto discorsivo escogitato da Wright a fare la differenza. È in quel prendere alla lettera il noir non solo come spettro cromatico di un personale sentire, ma come campo di rifrazione di catastrofi emotive e dissipazioni identitarie. Nell’assumere quanto Christian Metz scriveva a proposito del cinema come macchina capace di riprodurre il funzionamento - e il malfunzionamento, ça va sans dire – della mente. Penso, dunque filmo.
Se il presupposto è questo, allora è tutto più chiaro. Tutto più onesto. A partire da titolo, ambiguo per coerenza: lo straniero sì, ma chi e rispetto a cosa? È l’ex detenuto Henry (Harris), arruolato come agente sotto copertura per una difficile indagine sulla sparizione di un adolescente, in cui forse egli stesso potrebbe essere coinvolto? O è Mark (Edgerton), l’arruolante, il mentore, il capo dell’operazione segreta, il boss persino. Uno e bino anche lui, padre amorevole di un ragazzino come quello sparito e poliziotto in incognito, dai metodi ruvidi, spicci, non necessariamente leciti. Chi è l’uno e chi è l’altro? E se fossero tessere sparse di un unico, caotico puzzle?
Più che matassa, il racconto è come un bandolo che ha perso la traccia. Il montaggio ellittico, temporalmente sbalzato, la paratassi per movente e non per mezzo, possono, anzi devono disorientare lo spettatore. Il narrato si perde appresso ai rivoli dei personaggi, ai frammenti d’indagine, del mondo tutto.
Wright dichiara di essersi rifatto a un caso di cronaca, ma la cronaca è elusa dal resoconto profondo, fatta sparire tra le intercapedini e gli abissi di una umanissima zona morta. E, d’altra parte, cosa sono Henry e Mark se non fantasmi? Non sono forse colti spesso di spalle, o in chiaroscuro, mai completamente di faccia? E c’è forse uno spazio fisico qui, una cartolina dall’Australia? Tutto è tenebre e deserto là fuori. Mentre nella scenografia degli interni, ridotti dal direttore della fotografia Sam Chiplin a teatro astratto, stanza dell’anima, The Stranger riafferma una volta di più la sua evanescente natura poliziesca, la cifra puramente sensoriale, psicologica, a conti fatti ineffabile.
Non un lavoro sul trauma ma il trauma al lavoro, nelle sue fessure e nelle sue sconvolte sintassi.
Colto cinematograficamente. Senza alcuna fascinazione per la double identity del crime, se non come chiave di accesso alla solitudine, a un’alienazione senza ritorno. È più che giustificato dunque il procedere indiziario, la negazione deliberata di una linearità cronologica e narrativa, l’asincronismo delle voci.
La voce. Altro percepito di un rumore interiore. Un disturbo. Lo sconcertante sussurro del personaggio di Edgerton – attore qui semplicemente perfetto, come la sua controparte: Sean Harris - quando nello straziante finale, in un gioco paradossale di specchi, l’indiziato diventa lui, guardato a distanza dal figlio. Una matrioska, in cui ogni personaggio sembra contenere qualcosa dell’altro e ogni situazione preludere alla sua rimozione, dentro gli incastri invisibili di una smisurata dissolvenza incrociata.