Le carte in regola per diventare un film-evento le aveva tutte. Era l'adattamento del libro-Pulitzer di un grande scrittore americano, Cormac McCarthy, lo stesso di Non è un paese per vecchi (romanzo che i fratelli Coen avevano portato al cinema riscuotendo successo e Oscar). La regia era stata affidata a un semisconosciuto, l'australiano John Hillcoat, che si era fatto notare con La proposta (2005), non un capolavoro ma interessante. Di richiamo anche il nome di Nick Cave, già diverse volte collaboratore del regista (per lui aveva scritto sia la sceneggiatura de La proposta che quella dell'esordio: Ghosts of the Civil Dead, 1988), qui autore delle musiche, indubbiamente molto belle.

Quindi la storia, non nuova, ma di certo avvincente, incentrata sui postumi di un Armageddon, scenari post-apocalittici, un padre e un figlio che si trascinano tra le rovine della civiltà, assediati da fame, disperazione e uomini regrediti al cannibalismo. Ha fatto scalpore infine il boicottaggio della pellicola, con il mercato - prima americano, poi italiano - che si è coperto di ridicolo giudicando il film così crudo e deprimente da lasciarlo a lungo in stand-by. Nel frattempo l'intermezzo veneziano, che lo vede passare in concorso alla Mostra senza suscitare né elogio né scandalo.

In breve, The Road: un film dalle grandi premesse, più atteso che riuscito. Onesto, ma convenzionale. Rispetto al testo, Hillcoat – insieme allo sceneggiatore Joe Penhall- introduce poche varianti, semplificando qua e là i dialoghi e incrementando il ricorso ai flash-back, spinto più da ragioni produttive che da personali convinzioni. Bisognava cioè alleggerire la prosa sincopata e metafisica di McCarthy a vantaggio dell'azione, e dare maggiore spazio al personaggio di Charlize Theron, perché era l'unica controparte femminile del racconto, e perché era Charlize Theron. La variante pesa solo per chi ha letto il romanzo. Definire meglio il passato dei protagonisti non compromette l'equilibrio complessivo del film, ma provoca uno slittamento significativo rispetto all'asse comunicativo del libro, in quanto sostituisce il circuito trinitario di quest'ultimo (Dio-padre-figlio) col più semplice triangolo familiare (moglie-marito-bambino). Ai personaggi manca un po' di quell'aurea sacrale donatagli da McCarthy, perdono intensità e spirito per una caratterizzazione più hollywoodiana.

E questo senza togliere nulla all'ottima prova di Viggo Mortensen e del piccolo Kodi Smit-Mcphee (protagonista a breve del remake americano di Lasciami entrare), ambedue smunti, sporchi e amabilmente tragici. Senza nome, come nel romanzo. Che per il resto viene accostato con esagerata reverenza da Hillcoat, fino a trasformare un adattamento per il cinema in mera traduzione filmata.

Certo, potenza del libro, il film conserva comunque una forte valenza escatologica, ma ne appiattisce la poesia in una confezione tanto ineccepibile – paesaggi agonizzanti, fotografia sporca, musiche suggestive – quanto fredda. Il sospetto è che si sia letto il romanzo solo per il suo contenuto, perdendone il cuore: la scrittura. Lo conferma ciò che vediamo: una didascalica ripetizione per immagini, cui manca imperdonabilmente l'anima.