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Ci sono anche film folli, e belli, al concorso della 68. Berlinale. È il caso dello svedese The Real Estate e della sua eroina Nojet, interpretata da una bravissima Léonore Ekstrand (perché certi eccellenti attori non sono noti, almeno in Europa, fuori dal proprio paese? Un mistero fitto di quest’industria).
Nojet, fine sessanta, vive una vita al sole, in Spagna, con i soldi di un padre benestante. Dopo la morte del padre eredita un palazzo, alla periferia di Stoccolma. Nojet quel cubo grigio lo venderebbe volentieri. Se non fosse abitato all’ultimo piano da famiglie di ogni parte del mondo che l’hanno occupato. A pensare ai contratti d’affitto illegali e lucrativi è la sbandata nipote.
Il problema è che i condomini hanno costituito cooperative, pratica molto diffusa in Svezia, per impedire la vendita del palazzo, finanziarsi le ristrutturazioni e assicurarsi contratti sicuri per il futuro. Un investitore entra in scena, ma neanche il sesso grottesco (le scene più belle, forti e poetiche e di rilievo artistico) cui Nojet si dà cambia nulla a questa intricata situazione patrimoniale.
The Real Estate di Axel Petersén e Måns Månsson trasforma il campo di battaglia che è il mercato immobiliare nella città più costosa della Scandinavia in un poetico e iperbolico One Woman Show. Il loro teleobiettivo filma, di fatto, scene di guerriglia urbana. A Stoccolma? Provate a vedere cosa significa sgomberare un palazzo occupato o aspettare due ore con altre 40 persone l’attesa visita di una casa trifamiliare in vendita.
I registi scompongono in frammenti (un po' à la Almodovar) la loro Leonore Ekstrand: la sigaretta in bocca, le dita laccate, i suoi occhi inquieti alla ricerca di una via d’uscita. Primi piani che fanno di questo film un tableaux cubista ma pieno di movimento.
Nojet non è un’eroina positiva, è egoista, isolata dal mondo reale, indifferente. Alle prime luci dell’alba guida per Stoccolma piena di rabbia, pronta a colpire. Rambo al femminile. The Real Estate è la descrizione surreale di un incontro-scontro con la realtà. La cosa più bella di questo film? Il fatto che senza sforzi faccia saltare in aria quasi tutte le categorie.
Aiuta l’assurdità del finale a trovare un contatto col mondo reale? Dieci giorni di festival non significano necessariamente fuggire dalla realtà, ma affrontarla da una prospettiva, quando riesce, nuova. Dopo i dibattiti sul futuro della Berlinale, sui festival del mondo ai tempi di #MeToo, sui dresscode da cambiare ai Gala, (come se non ci fossero temi più urgenti per il futuro di un’arte e di un’industria), addirittura se il tappetto rosso debba diventare nero, è bello vedere un’opera che non parla di se stessa, ma rompe gli schemi per creare qualcosa di genuinamente nuovo. Un bel film che meriterebbe una distribuzione degna.