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A causa di una perturbazione, un aereo di linea va in avaria e il comandante Brodie Torrance (Gerard Butler) è costretto a un atterraggio d’emergenza in un’isola sperduta nel mare delle Filippine. Quando la storia sta per trasformarsi in un Cast Away corale (di lignaggio inferiore, per la verità) ecco l’amara sorpresa: il territorio è preda di guerriglieri spietati che disconoscono il Diritto internazionale e prendono in ostaggio i malcapitati viaggiatori per un riscatto. La missione per il Nostro, allora, è chiara quanto ardua: per poter riabbracciare la figlia a casa, deve portare in salvo equipaggio e passeggeri e fuggire dall’isola al più presto con l’aiuto inaspettato di Louis Gaspare (Mike Colter), detenuto salito all’ultimo sull’aereo per essere estradato.
Con The Plane, Jean-François Richet (Nemico Pubblico N.1) scommette sull’usato sicuro: dialettica civiltà/barbarie per un action-thriller caricato tutto sulle spalle di Gerard Butler, per l’ennesima volta eroe impavido in lotta (quasi) da solo contro il destino. Gli incassi americani, per ora, sembrano premiarli -negli USA il 13 gennaio Plane è scattato in vetta al botteghino, da domani 25 gennaio sarà nelle nostre sale- ma si fa, sinceramente, fatica a trovare virtù nel film.
In una ventina di minuti si intravede tutto il resto dellla storia (senza purtroppo essere smentiti poi) soprattutto perché Richet si affida al più trito ribaltamento delle apparenze iniziali: il comandante non fa che confortare i quattordici passeggeri sull’affidabilità dell’aereoplano, e invece…
Per di più, l’adrenalina è progressivamente sgonfiata da una sceneggiatura in ginocchio davanti ai personaggi: gli autori Charles Cumming (suo il bestseller cui il film si ispira) e P.J. Davis ricorrono a colpi bassi, forzature (col senno di poi inutili), sotto-trame seminate e dimenticate, senza frenare la smania di far trovare tutto quello che serve (telefoni, mazze, pugnali, soldi, qualsiasi cosa) a Butler e soci esattamente quando serve.
La storia, inoltre, non si scrolla di dosso mai il suo sapore derivativo. E anche quando vorrebbe (o potrebbe) confrontarsi con l’attualità, Richet sceglie il modo peggiore perchè le inquietudini sulla stabilità della democrazia americana post Capitol Hill sono strangolate dai soliti cliché liberisti: l’individuo solo contro tutto e tutti; il diritto contro la pistola; i non-occidentali brutti e cattivi per Natura, perché la democrazia è statunitense e la barbarie indigena (in questo caso filippina); l’esasperazione del tema familista per costruire i personaggi; l’inclusività delle premesse che si risolve nel solito contro-razzismo capovolto: ci sono sia personaggi asiatici (l’aiuto pilota di Honk-Kong) sia di pelle nera sì, ma solo se ancillari al divo, sempre e solo bianco (etero etc.).
Il risultato finale è una variatio maldestra e senza modernità su un filone già affollato e degnamente rappresentato.