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Colin Farrell in The Penguin
Il fumetto è ormai un medium che ha superato la sua stessa natura. Non solo perché nell’immaginario collettivo è divenuto anche, se non soprattutto, un materiale audiovisivo tra cinema e televisione che ha dominato - pur in declino negli ultimi tempi - le visioni, gli incassi, i discorsi degli ultimi 15 anni; soprattutto, grazie proprio all’esplosione cinematografica, ha potuto restituire il debito che aveva con molte forme di letteratura e di cinema. Batman, per esempio, nasce nel 1939 quando il gangster movie era sugli scudi (anche nel senso di dibattito politico) e stava per lasciare la sua eredità al noir: nel corso degli anni e degli albi, quelle atmosfere oscure, i continui giochi di ombre della Hollywood dell’età dell’oro hanno influenzato sempre di più le storie di supereroi e supercriminali - ma senza superpoteri - targate DC Comics, fino a giungere al completo ribaltamento prima in The Batman (2022) e poi, in modo ancora più deciso, con The Penguin , che riporta la radici narrative al passato, a quel nero criminale da cui è nato.
La miniserie creata e supervisionata da Lauren LeFranc per HBO, racconta di Oswald “Oz” Cobblepot (Colin Farrell) - che nell’universo narrativo dell’uomo pipistrello sarà il Pinguino, uno dei suoi peggiori arcinemici - e della sua scalata verso il potere criminale, partendo dentro la famiglia mafiosa dei Falcone, come luogo tenente del boss, e finendo per scontrarsi con Sofia (Cristin Milioti), la figlia del capo, divenuta una criminale psicotica rinchiusa nell’Arkham Asylum. Una origin story che ovviamente rimanda in continuazione alle creazioni fumettistica, ma non può al tempo stesso fare a meno di quelle cinematografiche o televisive (Sofia Falcone, personaggio minore sulla carta stampata, diviene centrale in Gotham, serie tv di una decina di anni fa), e soprattutto abbandona per grandi tratti le iperboli connaturate al materiale di partenza per aderire alla crudezza iper-realista del cinema e della serialità tv contemporanei.
La contemporaneità è importante anche per definire lo status mediatico del prodotto: del film diretto da Matt Reeves The Penguin è sia un seguito, svolgendosi una settimana dopo gli eventi cinematografici (l’attentato terroristico dell’Enigmista che inondò Gotham City), come pure uno spin-off, essendo Oz e i Falcone presente nello script del film; potremmo quindi dire che è un’espansione, secondo un linguaggio aderente al mondo cross-mediale, che prende strade proprie, sia dal punto di vista drammaturgico che formale, pur restando dentro le coordinate oscurissime dettate dalla fotografia creata da Greig Fraser per il grande schermo.
La miniserie - otto episodi, trasmessi in Italia da Sky Atlantic - però, in adesione al gioco sottile di indipendenza e continuità tipico delle narrazioni contemporanee, cerca presto di togliersi la casacca del “tele-fumetto” per gettarsi nel dramma criminale urbano: non è difficile sentire odore di Soprano degli anni ’20, senza la componente psicologica e la profondità della serie ideata da David Chase, con più violenza e tensione, concentrandosi sulla Origin story di un cattivo, mostrandone le crepe umane (il rapporto con la madre demente interpretata da Deirdre O’Connell) come pure gli slanci personali che la scalata al crimine reprimeranno, incarnati qui dal rapporto con Victor (Rhenzy Feliz), un piccolo criminale che diventa aiutante e autista di Oswald, il suo Robin personale, o dall’amante del criminale, Eve Karlo (Carmen Ejogo). Gli inevitabili duelli tra buoni e cattivi diventano, come ogni buona opera contemporanea che si rispetti, scontri tra diversi modi di vivere e concepire il male, ma a LeFranc e ai suoi sceneggiatori non interessano più di tanto le profondità quasi metafisiche o politiche, a cui ambiva per esempio il trittico di Christopher Nolan: ciò che fanno con The Penguin è riproporre dinamiche shakespeariane in un contesto gangsteristico, ragionare sui demoni interiori dei personaggi e mostrare le radici del Male assoluto su cui si fondano le riflessioni del fumetto, al quale restano fedeli solo nello spirito.
Nulla di troppo originale, evidentemente, ma efficace nello svolgimento, a patto di non smarrirsi nell’eccesso di flashback che le sceneggiature accumulano, forse per dare l’idea di essere in ogni caso prestige tv, come si conviene a HBO e nell’accettare le esagerazioni inevitabili ma che paiono a volte fuori tono, dato il contesto meno fantasioso in cui la miniserie naviga.
Rispetto poi al cinema, dove gli attori, specie i divi, fanno la lotta per non soccombere alla potenza delle maschere e delle icone (riusciremo mai a vedere Robert Downey jr. fuori dai panni di Iron Man?), tanto da voler apparire a volto scoperto il maggior numero di minuti possibile, qui c’è più spazio e modo per dare alle interpretazioni il loro valore: se Colin Farrell riprende i modi gigioneschi da Robert De Niro scorsesiano e il trucco nominato all’Oscar di lang="de" xml:lang="de">Naomi Donne, Mike Marino e Mike Fontaine che lo hanno reso irriconoscibile nel film, a rischiare di rubare la scena a tutti è Milioti, che sa incarnare tutte le sfumature della violenza e della follia, sa inscriverle perfettamente dentro un meccanismo sociale di cui è al tempo stesso epitome e relitto, rifiuto e punta dell’iceberg, capace di sobbarcarsi un episodio tutto dedicato a lei (il quarto, il più originale anche dal punto di vista della messinscena, diretto da Craig Zobel) e per un po’ farci rimpiangere che la serie non sia sua.
Rispetto quindi alle attese del tipo di prodotto, e soprattutto alla bontà del film di partenza, The Penguin può sembrare un lieve delusione , perché porta il gioco narrativo, produttivo e formale ad altezze più accessibili, cercando al contempo di sembrare un prodotto al top di gamma. Ci riesce a metà, come se avesse in parte frainteso la natura del fumetto, o come se cercasse di negarla.