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Saoirse Ronan_The Outrun
Il 2024 per Saoirse Ronan è un anno d’oro. Agli Oscar potrebbe essere candidata, e magari vincere, sia come miglior attrice protagonista che non protagonista. I due film in cui brilla sono Blitz di Steve McQueen e The Outrun di Nora Fingscheidt. Entrambi sono stati presentati in anteprima italiana ad Alice nella Città, sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma. In Blitz Ronan presta il volto a una madre operaia durante la Seconda Guerra Mondiale, che deve ricongiungersi a suo figlio in una Londra devastata dai bombardamenti. In The Outrun incarna una ragazza troppo dedita alla bottiglia, alla ricerca della redenzione. Dalla capitale inglese si trasferisce in Scozia per ritrovare sé stessa.
Fingscheidt affronta un tema sempre caro allo schermo: l’alcolismo. Il capostipite del filone è Giorni perduti di Billy Wilder del 1945. L’ultimo esempio è Un altro giro di Thomas Vinterberg, che ha portato tra le stelle anche Mads Mikkelsen. La cineasta tedesca non si ispira però ai modelli d’oltreoceano o nordeuropei.
La sua è una cifra stilistica che mira a descrivere un universo. Delinea un ritratto femminile in fiamme, che entra in comunione con la natura che lo circonda. Il mito si fonde con la realtà, si uniscono tecniche diverse, fino ad arrivare all’animazione. Il tormento interiore si scontra con la quiete degli ambienti, con i silenzi.
Quello della protagonista è un percorso di autodeterminazione, sospeso tra la guerra e il bisogno di pace. Giochi di opposti, in un film dove a mescolarsi è anche l’andare dei giorni. L’essere sobri è solo il punto di partenza per riallinearsi con gli elementi che ci circondano.
Fingscheidt interroga la scienza, per poi alternare storie antiche a dinamiche quotidiane. Gli spazi vuoti si specchiano nell’animo della giovane, il mare burrascoso rappresenta l’universo in cui è costretta a rimanere a galla. The Outrun è costellato di chiaroscuri, di sfumature indomite. In cui il passato si fa presente, in cui le feste dinamitarde sono un incubo da dimenticare.
La vicenda si rivela un piccolo saggio sulla consapevolezza, sull’accettazione, dove a farsi immagine sono i demoni di un’inadeguatezza che ormai appartiene alle nuove generazioni. Mai retorica, sempre graffiante, Fingscheidt sventola la bandiera di chi non vuole scoprirsi sconfitto. E realizza un’ode appassionata alla solitudine, che non sfocia nei pietismi, e che sa ben destreggiarsi tra le lacrime e i sorrisi.