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Come per Guccini, anche per Shahrbanoo Sadat gli eroi sono tutti giovani e belli, specie se sono quelli di Bollywood e dintorni: all’opera seconda, la regista afgana racconta il proprio paese all’alba dell’avvento dei mujaheddin negli anni ’80, quando l’Afganistan era sotto il controllo sovietico, attraverso l’iconografia degli eroi cinematografici dell’epoca.
The Orphanage racconta di un ragazzo appassionato di cinema, specie quello popolare che viene dall’India, che viene beccato dalla polizia a rivendere i biglietti del cinema. Viene spedito in un orfanotrofio gestito dai sovietici mentre il paese è in fermento per le rivolte degli estremismi musulmani: e il cinema sognato e ricordato diventerà il modo per affrontare la realtà. La regista, anche sceneggiatrice, affronta un dramma adolescenziale e politico attraverso l’omaggio e la rilettura di un’estetica cinematografica precisa, presa come urgenza storica e umana prima che come pretesto post-moderno.
Il film riesce fin da subito a superare i facili luoghi comuni di ambientazione, contesto e racconto grazie alla scelta che Sadat fa di assumere un tono sciolto e spigliato, non leggero certo ma capace di evitare tanto la nostalgia vintage quanto il verismo miserabilista, guardando ai classici del racconto per ragazzi, aggiungendoci una precisa costruzione storica ma soprattutto filtrando tutto, anche stilisticamente, con il gusto del cinema e della musica di quegli anni: passando dal digitale alla pellicola, interrompendo il racconto con aperture cantate e danzate, scegliendo il linguaggio filmico degli zoom, dei ralenti, degli impossibili stacchi di montaggio per fare del cinema (e di quel cinema, ovviamente) tanto un veicolo di resistenza psicologica e culturale quanto un mezzo per reagire e comprendere le proprie emozioni.
Come mostra il bel finale, che piega le ragioni della Storia a quelle del cinema come il Tarantino di Bastardi senza gloria, The Orphanage è la prova che il cinema non può cambiare il mondo ma può formare una personalità, può portarci ad agire come gli eroi che amiamo sullo schermo, rendendoci più giovani e belli, almeno dentro. Capaci di perderci dentro i sogni per uscirne un po’ migliori.