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The Only Living Boy in New York
Per chi non vive a Manhattan, in uno di quegli appartamenti eleganti dell'Upper East Side frequentato da eccentrici e intellò e non ha un editore fascinoso per padre e una madre stramba vagamente hipster, lo spettacolo démodé della borghesia artistoide newyorkese mette francamente a disagio. Ci troviamo di fronte a qualcosa di inanimato che si ritiene ancora vivo, l'irrilevante retaggio di una classe aggrappata a rituali stanchi e sfibrati, eclissata dall'America delle startup e della Silicon Valley. Oggi è un ricordo tanto l'illuminante coscienza di classe alleniana quanto il surrogato di sogno (l'oggetto desiderabile) della narrazione mainstream.
A The Only Living Boy in New York dell'involuto Marc Webb manca pure l'ironia, la plausibilità, la voglia di graffiare. In breve quella connessione profonda con l'universale umano che se ne sbatte della cornice, per quanto improbabile. Ci sentiamo, per dire, più vicini a un personaggio di John Wayne che al giovane, occhialuto Thomas figlio di, privilegiato ma di scarsa autostima, insofferente ma dolce, sicuro solo di essere confuso: su di sé, sull'amore, sul futuro, su tutto. Prima giura amore a una giovane bibliotecaria di colore già impegnata e poi finisce a letto con l'amante del padre, il tutto con la benedizione di un mentore alcolizzato, il (santo) bevitore di turno, piombato nella sua vita a fare un po' di chiarezza o forse per incasinargliela ancora di più.
Webb gira l'eterna commedia teen per over 40, mettendoci la consueta furbizia, inanellando situazioni da soap opera e trovate grossolane, mascherate dalla coltre di fumo di una retorica compiaciuta e sofisticata, basata su una confezione elegante, la colonna sonora vintage (da Simon & Garfunkel a Bob Dylan), il carisma di attori amabili a prescindere (Pierce Brosnan, Jeff Bridges, Kate Beckinsale) e la griglia di riferimenti iconici e testuali a una sottocultura museale ma ancora ammantata di fascino e reputazione. Chissà ancora per chi e per quanto.