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1825. Clare, giovane detenuta irlandese, insegue un soldato britannico attraverso le aspre terre della Tasmania, decisa a vendicarsi per un terribile atto di violenza che ha commesso contro la sua famiglia. Per addentrarsi in quelle terre arruola un aborigeno chiamato Billy, anche lui segnato da un passato pieno di violenza.
Quattro anni dopo l'acclamato Babadook, Jennifer Kent non abbandona del tutto le derivazioni horror ma tenta la carta del period drama a tinte forti, ingabbiando (letteralmente, considerato anche l'aspect ratio quadrotto di 1:33.1) i suoi protagonisti in un contesto storico - quello della colonizzazione britannica in Australia - che ha devastato l'esistenza degli aborigeni (con conseguenze drammatiche anche per quello che riguarda i giorni nostri) e, nondimeno, di molte donne britanniche recluse in patria e deportate in quelle terre per essere utilizzate come schiave.
Posta la nobiltà delle premesse, The Nightingale (l'usignolo, appellativo con cui le sudice truppe inglesi chiamano la protagonista canterina) fallisce però miseramente nella resa. E non ci vuole molto tempo a capirlo, basta il prologo.
Nel quale Clare (Aisling Franciosi), sposata e madre di una neonata, viene dapprima stuprata (situazione che intuiamo non nuova) e poco dopo stuprata ancora una volta, selvaggiamente, nella sua abitazione, sotto gli occhi del marito. Lui si becca una pallottola in petto, la bimba viene scaraventata su una parete.
Ecco, la dimensione orrorifica e ostentata entro cui Jennifer Kent ci obbliga ad entrare è questa. Quella cioè di una violenza al limite del pornografico come unica chiave per portare avanti una tesi - per carità, condivisibile quanto si vuole - che probabilmente un altro tipo di linguaggio avrebbe veicolato meglio.
I personaggi - soprattutto il tenente interpretato da Sam Caflin e il suo lurido sergente - non hanno un minimo di sfaccettatura, sono semplicemente delle bestie vestite da esseri umani.
Come, parallelamente, è sin troppo calcolato il percorso che la protagonista-vendicatrice effettuerà a livello di mutazione psicologica: assetata di sangue (e vedi un po'...) e dapprima razzista anche lei nei confronti dell'aborigeno (che lo è altrettanto nei confronti dei bianchi, e vedi un po'...) capirà invece che gli aborigeni sono vittime tanto quanto (se non più di) lei. Entrambi conosceranno aspetti dell'altro/a, entrambi si ricrederanno.
E "l'usignolo", addirittura, dopo un'estenuante tour de force dentro quei boschi oscuri, recede quasi dall'intento originario. Producendosi in un'arringa protofemminista (in una situazione dove solamente qualche fotogramma prima l'avrebbero massacrata...) a dir poco inverosimile.
Insomma, se l'intento della Kent era quello di creare un effetto disturbante e scioccante, di suscitare fastidio, l'obiettivo può dirsi raggiunto, soprattutto per quello che riguarda il fastidio.
Se invece voleva farci riflettere (ma è un film, questo, che alla riflessione preferisce lo schiaffone) sull'atavica violenza che sono costrette a subire donne e popolazioni indigene, il fallimento va di pari passo all'immoralità estetica dell'operazione.
Che non volge mai lo sguardo di fronte alle tante aberrazioni spiattellate, ma che si ricorda di lasciare in fuori campo l'uccisione di un piccolo canguro (unica fonte di sostentamento alimentare nel giro di chilometri). Hai visto mai che qualche animalista se la prendeva a male?
Il cinema, per quello che riguarda la condizione passata, presente (e futura?) delle popolazioni aborigene ha già detto, e decisamente meglio, grazie a registi come Rolf de Heer.