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The Mother of All Lies di Asmae el Moudir
Il cinema come strumento per rimodellare la costruzione del rimosso. La regista marocchina Asmae el Moudir – classe 1990, già giornalista-documentarista per Al Jazeera, BBC e Al Araby TV – porta in Un Certain Regard a Cannes 76 The Mother of All Lies (Kadib Abyad), potente e suggestivo film attraverso il quale tenta di riportare a galla i “segreti” della sua famiglia e quelli del suo paese, coinvolgendo i genitori, l’austera nonna (il vero capofamiglia), alcuni vicini e ritornando ad uno dei momenti chiave della storia del Marocco, la “rivolta del pane” del giugno 1981 a Casablanca, repressa con la forza e costata la vita a centinaia di persone.
Parte da un episodio della sua infanzia, el Moudir, quando 12enne approfittò della confusione per i festeggiamenti del Laylat al-Qadr (la Notte del destino, quella in cui secondo la tradizione sunnita il Corano si rivelò a Maometto) e tutta vestita di bianco sgattaiolò in uno studio fotografico per farsi immortalare, “tradendo” in questo modo i dettami della nonna secondo la quale è peccato farsi fotografare.
Tornata nella vecchia casa di famiglia, Asmae riunisce i suoi cari e, insieme al padre, ricostruisce letteralmente il quartiere della sua infanzia, provando a fare ordine tra i suoi ricordi, anche attraverso gli oggetti: perché quell’unica foto in cui le viene detto che c’è lei bambina in realtà tradisce un’altra verità?
Attraverso un ragionamento che diventa vero e proprio scavo materiale, el Moudir indaga “sulle storie della mia infanzia, interagendo con mia madre, mio padre e mia nonna. Questo mi permette di mettere in discussione i miei ricordi, che sono intrappolati tra finzione e realtà, tra verità e menzogna. E mostro quanto sia difficile costruire la propria identità quando ogni memoria che si possiede è in dubbio”.
Quest’ultimo è lo scarto che la conduce poi a ritornare al 1981, anno in cui non era ancora nata, chiedendo ai suoi familiari che cosa ricordassero di quel tragico evento, cancellato dai libri di storia del Marocco.
Con la parola, i non detti, ma soprattutto le figure di pupazzetti che tornano ad animare le case, il quartiere, poeticamente ricostruito attraverso un gigantesco modellino insieme a suo padre, la regista – che cerca di invadere il campo il meno possibile – realizza così un film sulla pluralità del punto di vista e sulle diverse interpretazioni che possono coesistere tanto per quello che riguarda una storia intima, familiare, tanto per quello che riguarda la storia di un’intera nazione.
E riesce, attraverso il cinema, a restituire una verità (o più di una) con uno sguardo che sa creare suggestioni non banali. Per certi versi quello che l’operazione di Les filles d’Olfa (in concorso qui a Cannes) non è stata in grado di fare.